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28 Gennaio 2020

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Advocacy: contro lo stallo italiano, la società civile deve ripartire dall’Europa

"Nel rapporto società civile-politica la spinta dovrebbe venire dal basso", intervista a Federico Anghelé su Vita

di Marco Dotti

Questo articolo è comparso il 17 gennaio 2020 su Vita.it.

Quali sono le istanze, quali sono le esigenze? Qual è la visione delle cose, alternativa, dei movimenti che riempiono le piazze e che si autodefiniscono “società civile”? La loro effervescenza rischia di essere fin troppo afferrabile e non passare mai dalla fase della protesta a quella del progetto. Ma è un tema che va oltre le piazze e tocca tutti: organizzazioni, associazioni, enti più o meno strutturati e cittadini. Una politica partitica che non sembra rappresentare più nessuno, può solo avvantaggiarsi di questo stallo. Per questo il tema dell’advocacy, dell’azione efficace per dar concretezza e non solo voce alle famose “istanze dal basso” è sempre più cruciale. Cruciale ma in crisi. Eppure, osserva Federico Anghelé, che di advocacy si occupa con The Good Lobby, oggi siamo davanti una nuova possibilità di influenzare i processi decisionali.
Come? Partendo dall’Europa, a patto di unire competenza e causa, vocazione e attenzione alla costruzione di reti.

MD: Partiamo da un’espressione, “società civile”, che è tornata in auge con il movimento delle sardine. Che cosa ne pensa?

FA: Le sardine vanno interpretate come un fenomeno duplice. Da un lato, il fatto che le persone tornino a scendere in piazza e si mobilitino è un dato nuovo, positivo o, comunque, da osservare con attenzione. Dall’altro, va rilevata l’immediata contiguità di queste piazze con la politica . Il rischio è tutto in questo secondo punto: che la società civile venga ridotta a uno strumento retorico per rimarcare la differenza fra il “noi” – i buoni – e “loro” – i cattivi, i politici – e, ancora una volta, venga usata per salutare l’arrivo dell’uomo nuovo o della figura salvifica che va contro il corrotto mondo della politica. Mentre il mondo – vero – della società civile è ben altro dall’essere una stampella per una politica che non è più in grado né di rappresentare, né di rappresentarsi.

MD: Potremmo recuperare una vecchia, ma importante distinzione tra politica prima e politica seconda. La politica prima, oggi, dovrebbe giocarsi nei luoghi veri della rappresentanza: nel sociale. La politica seconda è quella iper rappresentata – quindi: o sottovalutata o sopravvalutata, mai davvero valutata – nei talk show e nei media, ma incapace come diceva lei, di rappresentare e persino di rappresentarsi nel concreto…

FA: Il rischio è che questi movimenti, da cassa di risonanza di istanze reali, diventino filtro e finiscano per bloccare anziché attivare. Ma se rovesciamo la questione e dai problemi andiamo alle possibilità, allora le cose cambiano. Partirei da alcuni dati, quelli presentati a dicembre nella XXII indagine dedicata a “Gli italiani e lo Stato” condotta da Demos. Sono dati interessanti per tutti noi che ci occupiamo di sociale, società civile, reti…

Sfiducia nello Stato, fiducia nel sociale

MD: Partiamo dai dati, allora, e proviamo a darne una lettura con una lente “sociale”…

FA: Assistiamo a una progressiva e significativa erosione di fiducia nei confronti delle istituzioni tradizionali: nel 2019, in quattro anni, lo Stato nel senso complessivo del termine ha perso l’11% di fiducia. Il dato da osservare con maggior attenzione è quello sul Parlamento. I partiti godono del 9% di fiducia, mentre il Parlamento è al 15%. Ma se il dato sul partito va interpretato come una presa d’atto che il modello novecentesco di partito non è più in grado di svolgere il proprio compito di rappresentanza degli interessi allargati, il dato sul Parlamento è allarmante. Sul partito verrebbe da dire che non abbiamo ancora trovato una nuova forma, adeguata ai nostri tempi, in grado di dare rappresentanza ai cittadini, ma è inimmaginabile pensare di recuperare queste strutture ormai consegnate al passato. Per quanto riguarda il Parlamento, come luogo della mediazione degli interessi e delle istanze che arrivano dalla società… la sua crisi in termini di fiducia ci pone davanti a sfide inedite e a un rischio davvero grande. Da una parte abbiamo dunque la crisi dei corpi primari e dei corpi intermedi tradizionali, dall’altro abbiamo invece un’effervescenza di quella società civile che non si sente rappresentata e sta cercando forme nuove di partecipazione che vadano oltre la protesta.

MD: Anche su questo i dati dell’istituto Demos sono interessanti…

FA: L’impegno in attività culturali, sportiva o ricreativa è arrivato al 50% da parte degli intervistati e dal 2016 è in costante aumento. Mentre l’attività nell’ambito del volontariato è al 46%. I temi dell’ambiente (42%) si confermano come i più rilevanti. Ma un dato su tutti dovrebbe farci riflettere: il 23% degli intervistati da Demos rivendica di aver partecipato a manifestazioni non organizzate da partiti, mentre le manifestazioni di partito sono al 20%. Altri due dati: l’aumento continuo delle discussioni politiche on-line e la crescita delle petizioni on-line. Questi dati ci mostrano che quanto si racconta generalmente, che assistiamo a un ripiego nel privato e al contrarsi della partecipazione sociale, non è così aderente ai fatti.

MD: C’è una volontà di partecipare e una volontà di esprimersi che spesso non trova i canali per farlo…

FA: O che si esprime attraverso rivoli diversi che non riescono a fare massa critica. Ma il fatto che il 37% degli italiani abbia firmato petizioni è interessante, soprattutto perché è un dato in crescita (nel 2018 era il 33%).

MD: Il fatto che il 30% degli italiani partecipi a discussioni politiche on-line cosa ci dice?

FA: Ci dice che non c’è un disinteresse generalizzato. Casomai c’è una crisi degli spazi tradizionali che non sono più in grado di rappresentare, intermediare e nemmeno di dar luogo a queste discussioni.

MD: Lei ha parlato di rivoli: piccoli corpi intermedi – piccole cooperative, associazioni, organizzazioni sociali, movimenti locali – che agiscono, pensano, fanno mediazione sul territorio ma non riescono a fare massa. Qui si pone allora un altro tema: siamo davanti a una crisi dell’advocacy da parte delle organizzazioni della società civile. Quelle “grosse” si siedono ai tavoli di lavoro, discutono, fanno convegni. Ma la società è già altrove. Quindi è, nuovamente, sottorappresentata…

FA: Troppo spesso questi soggetti “tradizionali” della società civile organizzata sembra non riescano a fare massa, non riescano a creare un reale dibattito né a dettare un’agenda culturale, ancor prima che politica, organica e complessiva. Da molti il sociale, oggi, viene interpretato solo come punti di PIL, posti di lavoro creati…

La crisi dell’advocacy: lo stallo italiano

MD: Dalla sussidiarietà alla subalternità culturale. Un processo pericolosissimo, potenzialmente esplosivo…

FA: Bisogna porsi la domanda di fondo, senza fuggire dalle conseguenze: come possiamo agire in un contesto in cui c’è una grande effervescenza della società civile materiale, mentre dall’altro abbiamo un oggettivo collasso dei corpi intermedi tradizionali e formali. Qual è il ruolo che la società civile dovrebbe giocare, oggi? Chi se lo pone davvero questo problema?

MD: Il M5S, negli scorsi anni, con tutti i loro limiti, hanno rappresentato un canale di sfogo per la protesta, ma dall’altro, con i loro primi cinque anni all’opposizione hanno dato voce a molte istanze – dal contrasto al gioco d’azzardo, alla richiesta di interventi contro la povertà – che venivano appunto da quella società civile pulviscolare dimenticata dai mediatori tradizionali. Col loro passaggio al governo è cambiato tutto e non tanto il canale di sfogo della protesta, ma l’apertura complessiva all’advocacy dei territori è venuta meno. Con conseguenze evidenti: tutto è fermo, paralizzato, bloccato su inutili tavoli di lavoro, in un’attesa senza fine e che non avrà mai fine…

FA: Storicamente i 5S hanno avuto alcuni meriti: la capacità di intercettare il bisogno di sentirsi rappresentati da parte dei tanti esclusi; l’aver dato sfogo a quell’articolato malessere nei confronti dello status quo; l’aver immaginato di potenziare i confini della democrazia con uno slancio partecipativo, (che è cosa più praticabile della democrazia diretta). Erano riusciti, con i meet-up, a combinare tecnologia e luoghi fisici dove ritrovarsi, cosa che mancava alle forze politiche tradizionali. Quel momento è passato e, senza darne un giudizio di valore, semplicemente attenendoci ai fatti, questo è un problema per tutti perché apre nuovamente una voragine alla partecipazione e alla possibilità di advocacy da parte del sociale…

MD: Una voragine che gli stessi 5S, oramai al governo da due anni, hanno contribuito a allargare spaventosamente prima con la loro ossessione per per la democrazia diretta, ossessione che si è mangiata la vocazione alla democrazia partecipativa, poi con una gestione “di stallo” di ogni provvedimento – dalla riforma del Terzo Settore alle vere esigenze di contrasto alla povertà, filtrate nel colabrodo del Reddito di Cittadinanza…

FA: Come dicevamo, al di là del giudizio politico, questo è un problema per tutti e per la società civile più che per altri. Oggi la politica partitica, nel momento più acuto della sua crisi di fiducia, rigioca la carta di un atteggiamento patronizing, cerca di guidare, fagocitare e calare dall’alto delle soluzioni a problemi che finge di ascoltare dal basso. Nel rapporto società civile-politica la spinta dovrebbe venire dal basso, qui invece viene dall’alto. Il sociale è vivo, ma si disperde in mille rivoli proprio per questa ragione: la fine della mediazione è lo stallo dell’advocacy.

Un’Europa spinta dal basso?

MD: L’Italia è bloccata. Possiamo pensare all’Europa, fuori di retorica, come a un modo per rompere da fuori la parete di cristallo?

FA: La chiave è costruire reti di soggetti civici, reti di reti, per porre l’accento sulle istanze che vengono dal “basso” in senso lato.

MD: Che cosa intende con “istanze che vengono dal basso”?

FA: Con The Good Lobby, di cui dirigo l’ufficio italiano, parliamo spesso di “cittadino lobbista”, non perché crediamo nell’individuo come forza unica, ma perché la società civile è una forza complessa fatta di movimenti, gruppi spontanei, organizzazioni strutturate che sono più o meno in grado di raccontarsi e cittadini che possono avere grandi intuizioni. Quello che dovremmo e vorremmo fare è mettere tutti questi soggetti in rete. Soggetti che hanno una forza, che sia di natura organizzativa, che sia nella comunicazione, che sia nella semplice, ma potente forza delle idee. Mettendoli in rete possiamo cercare di far emergere le loro istanze e portarle al decisore pubblico evitando che vengano ingabbiate. I rivoli possono diventare una forza propulsiva incredibile, soprattutto in Europa.
Va inoltre evidenziato che in Europa la composizione degli interessi è più trasparente di quanto spesso non avvenga a livello nazionale e forse c’è un maggiore sforzo in tale direzione, perché le Istituzioni europee, con tutti i loro limiti, garantiscono però una distanza dai particolarismi che invece diventano soverchianti nello spazio nazionale.

Fare lobby per le buone cause

MD: Veniamo al nome della sua organizzazione, The Good Lobby: può destare perplessità, ma può anche chiarire meglio il rapporto che una società civile matura dovrebbe avere con i luoghi della decisione…

FA: Ci chiamiamo The Good Lobby perché pensiamo che l’attività di pressione dal basso sia uno strumento necessario nelle democrazie per potersi far ascoltare dai politici e consentire a questi di compiere scelte migliori. Oggi manca la capacità di portare le istanze sociali al decisore pubblico, ma soprattutto manca al decisore la capacità di ascoltare tutti quei soggetti interessati a una determinata politica, mettendoli perciò sullo stesso piano. Il lobbying quindi è uno strumento che consente di avere un dibattito pubblico e sociale che si alimenti di competenze diverse e che non si nutra solo di buone intenzioni. La nostra attività consiste nell’aiutare i molti rivoli della società civile ad influenzare il dibattito pubblico e la decisione, ancor di più di fronte all’incapacità della politica di ascoltare con sincero interesse.
Lo stallo dell’ascolto, in Italia, è diventato il blocco dell’advocacy. Se vogliamo fare qualcosa di diverso dall’andare soltanto in piazza, dobbiamo prendere di petto la questione e darle uno sbocco diverso da quello consueto, ovvero immaginando di guardare verso l’alto all’Europa, perché è lì che possiamo fare massa critica con altre realtà, intercettando istanze comuni in tutti i Paesi, condividendo le competenze di molti più attori, e raccogliendo l’effervescenza sociale.In Europa, oggi, non si sente la pressione dal basso. La pressione dal basso si arresta ancora all’interno dei confini nazionali. Questo è un errore di prospettiva, perché le decisioni assunte a Bruxelles che poi ricadono sulle decisioni nazionali superano il 50%. Ma è anche un errore culturale, perché se non creiamo reti a livello transnazionale non è possibile nemmeno far emergere i problemi, le istanze, i valori locali.

MD: Concretamente come operate?

FA: Cerchiamo di avere un approccio a 360 gradi. Prima di tutto, mettiamo in contatto professionisti che hanno attenzione al sociale e credono in una determinata causa con coloro che quella causa portano avanti. Operiamo su più livelli di rete. Il primo livello è mettere in comunicazione un attivista o un cittadino o un’organizzazione che ha bisogno di competenze e un professionista che presta il suo lavoro pro bono (per esempio un comunicatore per costruire una campagna o un avvocato che imposti una causa). Il secondo livello di rete nasce dalla volontà di The Good Lobby di proporsi come facilitatore, mettendo insieme organizzazioni su alcuni temi spingendo affinché lavorino assieme per portare la loro istanza al decisore pubblico.

MD: A livello italiano, cosa fate?

FA: Un punto su cui lavoriamo è quello dell’aspetto educativo, andando sul territorio e facendo formazione. Cerchiamo di lavorare sul locale, con il nostro ufficio italiano, per poi creare delle connessioni con il nostro ufficio di Bruxelles. Andiamo a incontrare persone e associazioni, le facciamo lavorare su progetti di advocacy comune e, l’ambizione, è quella di creare una rete di reti che metta assieme professionisti pro bono, attivisti e organizzazioni. Ma l’ambizione più grande è fare in modo che le loro proposte concrete vadano oltre i confini nazionali ed entrino nell’agenda europea. Anche perché, su moltissime istanze – pensiamo al clima, ma anche alle migrazioni o alla lotta alla povertà – c’è bisogno di un presidio dal basso. E questo presidio può farlo solo una società civile che passi dalla fase dell’arroccamento a quella della proposta, dalla protesta al lavoro in rete. Il desiderio trasformativo deve generare trasformazione, altrimenti diventa frustrazione sociale.
Oggi – i dati di Demos lo confermano – assistiamo a una fase di grande desiderio trasformativo, ma ancora associazioni, organizzazioni e cittadini non riescono a fare il salto. Intervenire ora, dotarsi ora di quegli strumenti che permettano all’advocacy di rigenerarsi e di tornare al suo ruolo primario è un passaggio decisivo non solo per la società civile, ma per la società nel suo insieme.