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3 Novembre 2019

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Legge sul conflitto di interessi? Tra “tutti onesti” e “tutti corrotti” scegliamo il bene comune

Intervista a Emiliano Di Carlo, vice-direttore esecutivo del master anticorruzione del l’Università Tor Vergata

di Niccolò Di Tommasi

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Articolo apparso il 29 maggio 2019 sul blog di Riparte il futuro

In queste settimane il tema del conflitto di interessi sta tornando centrale nel dibattito pubblico. Già con la nostra campagna “Candidati Trasparenti” chiedevamo ai candidati di ogni elezione di indicare spontaneamente i potenziali conflitti di interessi, evidenziando l’eventuale presenza di quote societarie o incarichi nei board di aziende, società, o ONG. Ma cosa si intende esattamente con questo termine in ambito politico?

In Italia il principale riferimento normativo è la L. 215/2004 che disciplina il conflitto di interessi dei titolari di cariche di governo. Ai sensi di questa legge il fenomeno sussiste quando “il titolare di cariche di governo partecipa all’adozione di un atto, anche formulando la proposta, o omette un atto dovuto, trovandosi in situazione di incompatibilità […], ovvero quando l’atto o l’omissione ha un’incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del titolare, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ovvero delle imprese o società da essi controllate […] con danno per l’interesse pubblico”.

Per avere conflitto di interessi è quindi necessario che il titolare di una carica di governo abbia fatto prevalere un suo interesse privato rispetto a quello della collettività e che da tale comportamento sia derivato un danno alla collettività stessa. Il conflitto di interessi  viene cioè inteso non come una situazione di pericolo ma come una condotta impropria, andando di fatto a coincidere con quella che a livello internazionale è definita come corruzione, ossia come abuso di potere per fini personali.

Ad oggi la legge consente ad una persona di essere presente in modo rilevante nell’economia, nella politica e nei media, tre settori che una legge seria sul conflitto di interesse dovrebbe mantenere autonomi e indipendenti l’uno dall’altro.

Quindi, come dovrebbe essere definito il conflitto di interessi?

Premetto che io sono un aziendalista e da diversi anni scrivo e faccio formazione universitaria e post-universitaria sul tema del conflitto di interessi sia nelle imprese che nelle amministrazioni pubbliche. Definisco il conflitto di interessi come una “situazione in cui una persona, nel nostro caso un politico, ha un interesse secondario che tende a interferire in modo reale, potenziale o apparente, con l’interesse primario dell’istituzione che è chiamata a servire“.

Il conflitto di interessi reale è quello che si presenta durante il processo decisionale (es. il prof. che interroga il figlio); quello potenziale vede la presenza di un interesse privato che in futuro potrebbe tendere a interferire con l’interesse primario (il figlio del prof. che si iscrive al corso del padre); mentre quello apparente riguarda la situazione di conflitto percepita agli occhi di osservatori esterni (gli studenti sanno che il figlio del prof. segue il corso o che il padre lo sta interrogando).

Questa definizione, che tra l’altro ho pubblicato sul mio sito e che oggi vedo utilizzata in molti codici etici e di condotta, richiede la presenza di tre elementi:

1) L’interesse primario dell’organizzazione;
2) Un interesse secondario, finanziario o non finanziario;
3) La tendenza dell’interesse secondario a interferire, in modo reale, potenziale o apparente, con quello primario.

Se ci si ferma a disciplinare il conflitto di interessi reale, un soggetto potrebbe affermare di non essere in  conflitto di interessi in quanto dichiara che, nonostante la presenza di un interesse privato, tale interesse non interferisce sul processo decisionale. Se però si chiede di disciplinare anche quello apparente, basta che sia presente un interesse privato che appare interferire agli occhi di osservatori esterni.

Nella corruzione l’interesse secondario prevale su quello primario, mentre nel conflitto di interessi c’è solo una tendenza a interferire e non è detto, quindi, che tale interesse produca un danno.

Quindi, potenzialmente, qualunque candidato ed eletto può cadere in un conflitto di interessi?

Certo! Ma il conflitto di interessi non è una variabile dicotomica, non è qualcosa che semplicemente “c’è o non c’è”, bensì può presentare diversi gradi di gravità.

Ecco perché, come già detto, è opportuno utilizzare il termine “tende a interferire” nella definizione. Se ho una seconda casa e devo approvare una legge che prevede la tassazione sulle seconde case ho sicuramente un interesse che tende a interferire sul mio processo decisionale, ma se di case ne ho dieci l’interferenza sarà più forte. Ciò non significa imporre dei limiti a prescindere, come ad esempio “se hai più di due case non puoi essere eletto”, ma tener conto del ruolo esercitato e degli interessi concretamente in gioco. Se ho dieci case è inopportuno che io possa partecipare ad una votazione sulla tassazione delle seconde case. Se il ruolo che si intende ricoprire non consente ai miei interessi di interferire sull’interesse primario, è forse esagerato arrivare alla proibizione di essere eletto.

Ovviamente questo approccio richiede la capacità e la volontà di valutare il conflitto di interessi e di trovare la soluzione più opportuna, salvaguardando simultaneamente l’interesse individuale e collettivo. Se non c’è capacità e volontà la proibizione rischia di essere l’unico rimedio praticabile.

Quindi basta tracciare un elenco di interessi, finanziari e non finanziari, che tendono a interferire con l’interesse istituzionale e prevedere di conseguenza delle incompatibilità?

No, non basta. Dopo anni di studi posso affermare con certezza che il problema centrale riguarda il fatto di aver perso il senso del dovere che abbiamo verso le istituzioni, ossia qual è l’interesse primario che dobbiamo perseguire. Praticamente tutti quelli che si occupano di anticorruzione sottolineano che il problema è tipicamente culturale. Ma non basta affermare che bisogna agire eticamente. Il rimedio più importante per affrontare il conflitto di interessi è senza dubbio quello che riguarda la diffusione di una cultura economico-aziendale che porti l’interesse istituzionale ad essere primario. Gli strumenti ci sono, bisogna solo avere la volontà e la capacità di applicarli.

Bisogna contrastare la cultura diffusa in alcuni contesti in cui l’istituzione è considerata come uno strumento per fare il proprio tornaconto personale.

Considerare un’amministrazione pubblica come un’azienda ad alcuni fa venire i brividi. Il problema risiede nel significato attribuito al termine. Il fine di un’amministrazione pubblica non può mai essere l’efficienza, né tantomeno il profitto. Il fine è sempre quello di soddisfare i bisogni della collettività, mentre l’efficienza è una condizione di sopravvivenza e di sviluppo da rendere compatibile con il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali e future.

Aver chiaro qual è l’interesse primario da raggiungere consente di misurare lo scostamento rispetto a quello attualmente espresso dall’istituzione. Gli organi di governo sono i principali responsabili di tale scostamento.

Il concetto di corruzione che utilizzo include qualsiasi comportamento che si pone contro (o non favorisce) l’interesse primario dell’azienda (inteso come bene comune) diffondendo male comune, vizi e non virtù. La cattiva governance e gestione, a prescindere dall’uso privato delle funzioni attribuite, è quindi corruzione, nel senso di rottura dell’integrità, di ciò che rende unita la comunità.

Se fosse chiaro l’interesse primario delle nostre istituzioni non ci troveremmo a dover gestire tante situazioni di conflitto di interessi e a dover proibire di trovarsi in certe situazioni, nonché ad assistere alla costituzione e alla permanenza di enti inutili. Inoltre, molte situazioni di conflitto di interessi potrebbero essere gestite positivamente nell’interesse istituzionale.

Da quanto dice sembra che la variabile umana sia centrale nella gestione del conflitto di interessi…

Ogni essere umano è unico. Posto di fronte a certe situazioni, valuterà e reagirà in modo diverso perché portatore di una sua cultura, quindi di suoi principi e valori, a loro volta dipendenti da una serie di esperienze vissute, tra l’altro, nella famiglia, nella scuola e in ambito lavorativo.

A questo modo variegato che gli individui hanno di leggere e interpretare il mondo circostante, si contrappongono codici etici e di condotta che, talvolta in pochissime righe, pretendono di disciplinare il fenomeno del conflitto di interessi, utilizzando un linguaggio “legalese” accessibile a pochi e distaccato, tipico della cultura dell’adempimento. Il risultato è che il vero codice “etico” è quello espresso dal sistema incentivante, peraltro legato al raggiungimento di obiettivi non sempre allineati con la mission (quando presente) dichiarata dall’istituzione, e dai comportamenti delle persone, in particolare dei soggetti apicali. Un politico che informalmente incoraggia o tacitamente condona la corruzione, di fatto l’autorizza, anche se il codice etico vieta tale condotta. Se chi si pone contro il bene dell’istituzione riceve solo uno “schiaffo sul polso” e la sanzione prevista nel codice non viene applicata, i trasgressori ricevono un messaggio fuorviante sulle conseguenze, che porteranno con loro anche in situazioni simili.

Ritengo che spesso i rimedi preventivi e reattivi finora proposti dalla teoria e dalla pratica non abbiano considerato adeguatamente come la complessissima variabile umana possa reagire a situazioni di conflitto di interessi  e impattare sulle condizioni di sopravvivenza e sviluppo dell’azienda.

Lo studio della complessità dell’uomo, soprattutto quando opera in ambito aziendale, rende necessario seguire un approccio multidisciplinare, che includa, tra le altre, l’economia aziendale, il diritto, la psicologia, la sociologia, l’economia comportamentale, la filosofia.

In particolare la psicologia è importante per comprendere i motivi per i quali persone che intendono agire in modo corretto arrivano poi a comportarsi in modo disonesto, riuscendo al tempo stesso a mantenere intatta la loro moralità.

Dunque, la vera sfida deve essere quella di trasferire le regole dei codici nei processi decisionali delle persone e nel loro agire.

Ma è sbagliato avere conflitto di interessi?

Avere interessi secondari non è in sé sbagliato. Molti conflitti di interessi possono essere risolti in modo semplice e reciprocamente accettabile. La maggior parte degli interessi privati sono assolutamente legittimi (e desiderabili) entro certi limiti. Sono criticabili quando hanno un peso tale da interferire sull’interesse primario delle organizzazioni.

Ad essere sbagliato è il fatto di non affrontare il conflitto di interessi – anche se solo potenziale o apparente – perché è la non gestione a poter portare alla corruzione e/o alla perdita di immagine e reputazione. È necessario contrastare la naturale tendenza a non comunicare il conflitto di interessi per timore che sia sbagliato averne. Dall’esperienza che ho maturato è emerso che molte volte non si dichiarano gli interessi privati per timore che l’azienda possa considerarli in modo negativo.

Ritiene che sarebbe possibile escludere fasce di popolazione da ruoli elettivi con l’obiettivo di sventare “inevitabili” conflitti di interesse? Si pensi ad esempio a candidati con legami economici particolarmente rilevanti ed influenti.

Un imprenditore di una multinazionale farmaceutica è inopportuno che possa ricoprire la carica di ministro della salute, per evidenti motivi. Il primo è che se arriverà a ordinare un vaccino prodotto dalla sua azienda potrà sempre dichiarare di aver servito l’interesse del paese e che il suo interesse privato coincide con un interesse collettivo. Provare il contrario potrebbe essere pressoché impossibile. Se poi si volesse evitare di farlo partecipare alle delibere in cui egli è in conflitto di interessi si potrebbe raccomandare il rimedio dell’astensione, ma visti gli interessi economici e relazionali in gioco che lo legano al settore farmaceutico rischia praticamente di doversi quasi sempre astenere.

In generale se gli interessi economici possono avere un livello di interferenza elevato, anche solo apparente, ritengo che l’unico rimedio possibile sia la proibizione. In tutti gli altri casi deve essere valutato e affrontato.

Cosa dovrebbe contenere allora una buona norma sul conflitto di interessi?

Innanzitutto una definizione di conflitto di interessi che possa portare a gestire in modo preventivo situazioni di pericolo e a orientare verso comportamenti virtuosi.

Di fondamentale importanza è poi che la definizione includa anche il conflitto di interessi apparente, non solo quello potenziale. Le sanzioni devono essere previste quando non vengono attivati rimedi come la comunicazione del conflitto di interessi, l’astensione dal processo decisionale, a prescindere dal fatto che le situazioni di conflitto si siano trasformate in comportamenti a danno della collettività.

Inoltre, è opportuno utilizzare il termine “tende a interferire”, per sottolineare che il conflitto di interessi può avere diversi gradi di severità e che la scelta del rimedio richiede, volta per volta, la valutazione dell’interferenza. Su tale valutazione è opportuno l’intervento di soggetti a ciò preposti (es. Antitrust).

Ma una legge sul conflitto di interessi non basta se non trova coerenza nei messaggi e nei comportamenti di politici e funzionari pubblici.

La politica deve diffondere messaggi di rifiuto di qualsiasi forma di corruzione. Affermare che gli italiani sono tutti onesti, ma se qualcuno viene “beccato” paga, esalta il rimedio della repressione, mentre quello di cui abbiamo bisogno è la prevenzione. Se devo fidarmi a prescindere, posso tranquillamente assumermi il rischio di mettere una persona che ha forti interessi economici in un determinato settore in un’autorità che ha il compito di disciplinare proprio quel settore. Se, invece, parto dal presupposto che le tentazioni e le pressioni, unite alla ineliminabile vulnerabilità umana, possono portare un soggetto a deviare dai suoi doveri istituzionali, cerco di prevenire questo rischio.

Tuttavia non è nemmeno utile affermare che siamo tutti (o quasi tutti) corrotti, perché ciò favorisce un clima di diffidenza che non aiuta, anzi rischia di favorire il rimedio della proibizione trasversale, non caso per caso. Ciò ha però diversi effetti indesiderati, tra cui quello di prevedere una serie di incompatibilità che talvolta rischiano di porsi contro il bene dell’istituzione, generando dilemmi etici di non facile soluzione: è giusto rispettare la norma, ma è anche giusto perseguire il bene aziendale. Cosa fare quando il rispetto della norma si pone contro il bene comune? Il rischio è che la proibizione porti più costi che benefici e arrivi ad essere disapplicata e banalizzata, anche lì dove ce ne sarebbe bisogno.

È quindi opportuno sensibilizzare, più che proibire per mancanza di sensibilità.

Forse è opportuno lanciare il messaggio che nelle nostre attività siamo soggetti, chi più chi meno, a tentazioni e a pressioni di vario genere che possono farci deviare dalle nostre responsabilità. Per tale motivo ci dobbiamo mettere in discussione.

La prevenzione deve diffondere un modello culturale che possa mettere in discussione la nostra capacità di saper resistere alle tentazioni e alle pressioni. Ci sono meccanismi psicologici di varia natura che portano ad agire in modo improprio. La letteratura sulle frodi societarie distingue gli individui a seconda che siano naturalmente predisposti alla frode da quelli che, pur non essendolo, arrivano a tenere comportamenti impropri, a causa di fattori situazionali (es. obbedienza all’autorità) e/o di meccanismi di razionalizzazione morale (es. “lo fanno tutti”; “è solo un prestito”). Inoltre, diversi sono i meccanismi di razionalizzazione morale che trovano genesi in una cattiva governance e gestione. Le frodi sono spesso una risposta ai comportamenti impropri dell’azienda, ossia ad una cattiva governance (es. “l’azienda mi sfrutta”; “l’azienda non tiene conto delle mie competenze”; “non c’è meritocrazia”). Credo che una legge, per quanto buona, non possa da sola arrivare al risultato sperato se non vi sono altre azioni che possano supportarla.

La formazione obbligatoria di chi deve ricoprire incarichi politici credo sia un altro elemento centrale. Come per portare un’automobile, chi si presenta alle elezioni dovrebbe ancora prima superare un “esame di guida dell’amministratore“, per avere un patentino che attesti che abbia capito cosa significa governare per il bene comune. Inoltre, con specifico riferimento al conflitto di interessi, egli dovrebbe avere le abilità per identificare e valutare, anche moralmente, il conflitto di interessi.

Oggi ci sono molti ambiti formativi in cui possono essere acquisite tali competenze.

Credo che su queste tematiche debba essere prevista la formazione obbligatoria anche per i soggetti apicali delle amministrazioni pubbliche. Non basta la formazione obbligatoria ai dipendenti quando il vertice non è sensibilizzato.

Quanto ritiene urgente la norma sul conflitto di interessi?

Urgentissimo! Il conflitto di interessi non affrontato in modo preventivo rischia di rompere sempre più il legame tra individui e comunità. Come dicevo, la corruzione vede il suo antecedente proprio nel conflitto di interessi. Dietro un qualsiasi comportamento corruttivo c’è sempre un conflitto di interessi. Se non ci muoviamo, il fenomeno della corruzione si normalizzerà sempre di più, alimentando meccanismi di razionalizzazione morale che portano anche persone oneste a comportarsi in modo disonesto e a sentirsi moralmente integre.

Quanto più forte è la cultura individualistica che vede l’azienda come strumento per perseguire i propri interessi, tanto più forte dovrà essere la lotta per separare l’interesse delle persone da quello dell’azienda.

L’orientamento al bene comune, quindi della società del “noi”, ha il vantaggio di porre l’uomo al centrodell’analisi e di non considerarlo come un soggetto egoista che guarda al suo esclusivo tornaconto, ma come un soggetto che per raggiungere la sua felicità ha bisogno di interagire con gli altri, al fine di soddisfare i suoi bisogni spirituali, morali e sociali.

Perché secondo lei l’Italia non si è mai dotata di una normativa efficace per regolamentare il conflitto d’interessi?

Il conflitto di interessi è sempre stato molto sottostimato. Si è data priorità a problemi solo apparentemente più urgenti. Poi ci sono resistenze di chi vede in una legge seria sul conflitto di interessi il rischio di dover mettere da parte i suoi interessi particolari. Ma se questa è l’intenzione è evidente che chi la sostiene sta sbagliando mestiere, perché per ricoprire una carica pubblica non solo occorre essere indipendenti, ma anche apparire indipendenti, ovviamente se la credibilità del politico e l’immagine e la reputazione della sua istituzione assumono valore.

Altri trovano semplicemente ingiusti i rimedi previsti per affrontare il conflitto di interessi.

Una critica normalmente mossa ai rimedi è che essi puniscono ingiustamente persone perbene per le malefatte di pochi. Ad esempio, un politico potrebbe ritenere ingiusta l’impossibilità di essere proprietario di un’impresa, perché egli si sente persona integra e capace di risolvere positivamente qualsiasi tipo di interferenza sul suo processo decisionale.

In effetti, la semplice presenza di un interesse privato potenzialmente in conflitto fa scattare automaticamente dei rimedi che possono andare, a seconda della gravità del conflitto di interessi, dalla semplice comunicazione degli interessi in conflitto, fino alla proibizione di ricoprire un certo ruolo o al disinvestimento dell’interesse privato causa del conflitto.

Le critiche verso i rimedi derivano però da un modo sbagliato di giudicare i loro reali propositi, che sono: a) eliminare, o almeno mitigare, l’interferenza dell’interesse secondario; b) rendere il soggetto decisore e la sua istituzione credibili e affidabili.

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