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10 Marzo 2020

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Migrazione nel Mediterraneo: Frontex nega l’accesso ai dati (e chiede le spese)

Luisa Izuzquiza è la destinataria di un conto salato di spese legali da pagare inviatole dall'Agenzia europea per la guardia di frontiera e costiera. Un caso che rappresenta un precedente pericoloso per la libertà di informazione in Europa

di Laura Ghisellini

Qualche tempo fa Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, ha recapitato agli attivisti Luisa Izuzquiza e Arne Semsrott un conto molto salato di spese legali da pagare: 23.700 euro. Il motivo? Averla portata davanti alla Corte di Giustizia europea per non aver accolto una richiesta di accesso agli atti riguardanti l’attività svolta nel Mediterraneo per far fronte all’emergenza migratoria.
Abbiamo raggiunto Luisa per farci raccontare i dettagli di questo episodio che crea un pericoloso precedente per la tenuta del Freedom of Information Act in Europa.  

Ci racconti come è iniziata questa storia e come è stato possibile arrivare a questo punto?

Il mio collega Arne e io abbiamo lavorato per diversi anni sulla trasparenza delle politiche sulla migrazione in Europa. Siamo entrambi attivisti per la libertà di informazione e nel tempo abbiamo investigato cercando di ottenere più chiarezza in questo campo. Nel 2017 abbiamo cominciato a concentrarci nello specifico su Frontex, uno degli attori più importanti nell’ambito dell’implementazione delle policy sulla migrazione europee e allo stesso tempo un attore particolarmente opaco nel proprio modo di operare. Frontex ha molto potere e allo stesso tempo molta responsabilità in termini diritti umani ma non sembra fare un grande sforzo per la trasparenza. In particolare nel 2017 aveva in corso un’operazione nel Mediterraneo Centrale e durante l’estate ci siamo accorti dalle statistiche che gli annegamenti delle persone che partivano dalla Libia verso l’Italia erano improvvisamente aumentati, il numero dei morti cresceva e al contempo cresceva l’ostilità contro le ONG. Il nostro principale obiettivo era ottenere informazioni su cosa stesse accadendo perché certamente qualcuno non stava facendo il proprio lavoro dato che ogni missione nel Mediterraneo ha l’obbligo di salvare le vite in mare. Quindi abbiamo deciso di inviare una richiesta di accesso a dati che riteniamo basilari: il nome, la bandiera e il numero totale delle imbarcazioni che Frontex stava impiegando. Abbiamo richiesto queste informazioni perché sono quelle fornite ad esempio dall’operazione Sofia che è l’equivalente in ambito militare. Se vai sul sito dedicato puoi trovare infatti molti dati sulle presenti e passate risorse schierate, ogni imbarcazione, elicottero, aeroplano. Volevamo che Frontex facesse la stessa cosa perché lo ritenevamo un atto necessario per capire come l’Europa stesse rispondendo alla crisi umanitaria. 

Ma Frontex si è rifiutata di fornire tali informazioni. Abbiamo fatto ricorso ma ha rifiutato nuovamente e così abbiamo deciso di andare davanti alla Corte. Era il gennaio 2018 e nel novembre 2019 abbiamo ricevuto la notizia che il tribunale aveva confermato la non pubblicabilità delle notizie. Dopo la sentenza c’è un periodo di tempo in cui si ha la facoltà di ricorrere in appello e proprio durante questo periodo abbiamo ricevuto una email da Frontex col conto delle spese legali da pagare. E questo è il punto in cui siamo adesso.

Come avete interpretato questo gesto?

Considerato il tempismo, lo abbiamo preso come un atto intimidatorio, della serie: questo è ciò che c’è da pagare finora e il costo potrebbe raddoppiare se procedete con l’appello. Inoltre credo che il messaggio sia rivolto in termini più ampi a tutta la società civile dato che si tratta della prima iniziativa condotta contro Frontex. L’impressione è che stiano cercando di creare un precedente tramite il nostro caso e mettere in guardia eventuali altre iniziative dal basso rivolte nei loro confronti.  

Ma cosa ha detto la corte nello specifico?

Che la divulgazione di questi dati potrebbe mettere in pericolo la sicurezza pubblica dato che i trafficanti potrebbero identificare le barche di Frontex. Inoltre ci è stata fornita un’altra motivazione, secondo noi inappropriata e anche inopportuna, secondo cui la divulgazione di questi dati metterebbe in pericolo la vita dei migranti.
Considerando quello che sta accadendo anche in altri casi simili, sembra esserci da parte delle Istituzioni una tendenza comune a non voler prendere in seria considerazione il tema dei diritti umani perché è un ambito molto sensibile a livello politico. Il tribunale infatti ha accolto con grande facilità le spiegazioni di Frontex e secondo noi non ha fatto grandi sforzi nel valutare la nostra posizione. Hanno assunto la posizione politica più confortevole dicendo: hanno ragione, è pericoloso, non dobbiamo pubblicare queste informazioni. 

È dunque una minaccia generale alla libertà di accesso ai dati?

Certamente, potrà essere applicata ad altri casi. L’eccezione all’accesso su cui ci siamo imbattuti noi è appunto la sicurezza pubblica, su cui non c’è una vasta giurisprudenza quindi penso che abbiamo ancora un certo margine di manovra. È importante rendersi conto però che la posizione della corte rispetto a questo tema non è stata così disponibile e ambiziosa come avremmo sperato che fosse. 

Cosa accadrà adesso, quali sono le prossime mosse?

Abbiamo lanciato una petizione pubblica su WeMove e c’è anche una dichiarazione firmata da diversi movimenti della società civile [inclusa The Good Lobby, ndr] che è stata recapitata a Frontex in cui si fa presente che il loro comportamento si è visto. Consegneremo le firme che al momento sono oltre 85.000 nei prossimi giorni. In questo momento sta a Frontex riconsiderare la propria posizione e ascoltare la voce della società civile. Anche perché quello che stanno facendo è pericoloso e completamente sproporzionato. 

E dal tuo personale punto di vista, rimpiangi qualcosa? Se potessi tornare indietro cambieresti qualche mossa? 

Assolutamente no. Il problema di come scegliamo di affrontare le crisi umanitarie sui confini definirà l’Unione europea del futuro. Il fatto che un’area stabile e sicura come la nostra non voglia rispettare gli obblighi legali di chi chiede asilo e ancor più diventi aggressiva nei confronti di chi ha bisogno di protezione internazionale… per me è ovvio che tutto questo non sia ammissibile.
Personalmente  non riesco a immaginare me stessa mentre osservo tutto ciò senza fare niente per aiutare, per ottenere chiarezza, per documentare ciò che sta accadendo. Perciò ho deciso di mettere le mie competenze a servizio della libertà di informazione. Lo faccio come attivista, nel mio tempo libero. E penso di poter parlare sia per me che per Arne dicendo che non abbiamo alcun rimpianto. L’unico rammarico è non avere abbastanza mezzi per fare di più soprattutto adesso che la situazione sta solo peggiorando in termini politici, come vediamo ad esempio al confine con la Turchia. Ci sono tutti i segnali per capire che abbiamo ragione ad aver intrapreso questa battaglia e continueremo ad andare avanti in questa direzione.

Per unirti alla voce di Luisa e Arne firma qui.