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16 Giugno 2023

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La famiglia solo nella propaganda, anche con i fondi del Pnrr l’Italia resta senza asili e nidi

Nonostante i miliardi di euro previsti dal Pnrr per i servizi all’infanzia, i progetti veri e propri mancano, e anche quando ci sono non partono. E le famiglie hanno poche alternative

di Andrea Ballone

Questa è l’ottava puntata dell’inchiesta “Le mani sulla Ripartenza” sul conflitti di interessi e le opacità del Pnrr in Italia, organizzata in collaborazione fra IrpiMedia e The Good Lobby.
Il progetto è finanziato dai cittadini e dalle cittadine. Vuoi partecipare? Dona ora >>


Ogni volta che i loro turni di lavoro coincidevano i genitori, una coppia proveniente dall’Est Europa, lasciavano la figlia a casa da sola. Questo almeno fino a quando i carabinieri non sono intervenuti, allertati dai vicini, e li hanno denunciati per abbandono di minore. La bambina, 5 anni, quando gli uomini dell’Arma sono entrati stava giocando col gatto e mangiando i pop corn, preparati dalla madre. Era perfettamente tranquilla, non presentava segni di abusi o violenze, né di particolare disagio. Semplicemente i due non avevano nessuno che la accudisse in loro assenza e sono stati costretti a lasciarla a casa sola nell’appartamento di Stradella, piccolo comune al confine tra Pavia e Piacenza, dove il lavoro non manca, anche per la forte presenza di logistiche che negli ultimi anni hanno aperto nella zona. 

Quello che manca invece, e non solo a Stradella, sono semmai gli asili pubblici, che consentirebbero di accedere a un servizio del quale sempre più genitori hanno necessità. Oggi in Italia i posti nei nidi e negli asili non sono sufficienti, anche per questo il Pnrr aveva previsto un robusto intervento, che doveva portare la Penisola ai livelli del resto dell’Europa. L’obiettivo era di arrivare 264 mila nuovi posti tra nidi e asili entro il 2025, ma è ancora lontano come ha fatto rilevare in più di un report la Corte dei Conti, che teme che questo andamento «possa pregiudicare il raggiungimento dell’obiettivo». Secondo i dati forniti da Openpolis in Italia nel 2020 c’erano 27,2 posti ogni 100 bambini nei servizi di prima infanzia. Si tratta di un dato in crescita rispetto agli anni precedenti, ma ancora lontano dalla soglia fissata dall’Ue, che è stata innalzata da 33 a 45. 

Priorità alle zone svantaggiate

Per questo all’interno del Pnrr era stato fissato un obiettivo, finanziato da risorse nazionali pari a 1.600.000 euro, dei quali 700 mila relativi ai “progetti in essere” (cioè la cui realizzazione è già iniziata) e i rimanenti 900mila destinati ai servizi educativi per la prima infanzia, disponibili dal 2024 per il finanziamento della gestione dei nuovi asili e poli dell’infanzia. I fondi previsti non si limitano a finanziare le costruzioni, ma anche a far fronte a spese di gestione, comprese quelle per il personale. Vi erano anche 3 miliardi destinati a progetti nuovi, insomma un bel gruzzoletto, che avrebbe risolto molti problemi ai genitori, se si pensa che 2.4 miliardi  erano destinati solo agli asili nido. Stando agli intendimenti dell’Europa nei progetti era compresa la costruzione, la ristrutturazione, la messa in sicurezza e la riqualificazione di asili nido, scuole dell’infanzia e centri polifunzionali (i cui bandi sono andati deserti), dando la priorità alle aree svantaggiate, che (possiamo spoilerare) sono rimaste svantaggiate.

Non si tratta soltanto di una questione italiana, perché il piano doveva prevedere l’adeguamento a standard europei che sono stati fissati nella cosiddetta strategia di Barcellona fin dal 2002, e che prevedevano di offrire servizi di educazione e di cura della prima infanzia ad almeno il 33% dei bambini di età inferiore ai tre anni e ad almeno il 90% dei bambini di età compresa fra i tre anni e l’età dell’obbligo scolastico. Obiettivi che sono stati rivisti al rialzo recentemente portando i posti nei nidi in Italia al 45% entro il 2030. Per gli asili si parla di un obiettivo di partecipazione al 96%. L’Italia, che balla tra il 20 e il 30% (come conferma la stessa Corte dei Conti) è ancora in alto mare.

Gli enti locali sono l’anello debole 

Quando è iniziato il monitoraggio sullo stato dei lavori, nel 2022, è emerso che gli enti locali che non avevano ancora provveduto a realizzare i progetti che avevano proposto (ed erano stati accettati) erano il 24%, nonostante il ministero dell’interno avesse già provveduto nell’anno in corso alla liquidazione delle anticipazioni nella percentuale del 20%. Ancora una volta il collo di bottiglia del Pnrr è stato quello dei piccoli comuni. Scrive la Corte dei conti: «Per i “progetti in essere” alla data del 30 dicembre 2022 dovevano essere sottoscritti accordi per quasi il 24% degli interventi autorizzati, che a parere del Collegio risulta essere una percentuale relativamente alta considerato che il termine finale di aggiudicazione di tali interventi è il 31 maggio 2023. Analogamente, anche per i “progetti nuovi” tale fase è ancora in corso di svolgimento e necessita di essere conclusa rapidamente, considerato che il termine massimo di aggiudicazione è il 30 giugno 2023 come da milestone eurounitaria». Il report in questione è del 31 gennaio 2023 e nel mese di luglio, con la prossima relazione semestrale la  Corte dei Conti aggiornerà i dati, ma visto l’andamento sembra difficile che gli obiettivi vengano raggiunti. Il rischio è quindi che l’Italia quei famosi asili non li vedrà mai, non raggiungendo i target europei, ma soprattutto non fornendo quel servizio che molte famiglie chiedono e che dovrebbe essere garantito, specialmente in un mercato del lavoro in cui quasi sempre entrambi i genitori devono portare a casa un reddito. 

Al Sud nessuno è disponibile ad aprire un nido

Il percorso, soprattutto per i nidi al Sud, è stato piuttosto accidentato. Finora, le regioni dove ci  sono i maggiori problemi a livello occupazionale sono anche quelle che hanno un welfare riservato alle famiglie più debole. Il bando per i cosiddetti progetti nuovi, che chiudeva in un primo tempo al 3 marzo 2022, è stato protratto fino al 31 marzo con particolare riferimento alla «realizzazione di asili nido e servizi integrativi, comprese le sezioni primavera». In alcune regioni le candidature erano inferiori alle risorse disponibili, così Il 15 aprile 2022 è stato riaperto. La nuova scadenza era fissata per il 31 maggio 2022, per i comuni delle regioni del mezzogiorno con priorità per la Basilicata, il Molise, e la Sicilia. In totale erano state raggiunte 1223 candidature per le scuole dell’infanzia e i nidi per un complessivo di circa 3 miliardi di euro. 

Ma le graduatorie non sono state fatte comunque. Le avrebbe dovute fare il ministero della pubblica istruzione che, si giustifica con una lettera alla Corte dei Conti spiegando «che per le risorse fascia d’età 0-2 anni, erano pervenute n. 1.676 candidature complessive, per un importo di euro 1.992.842.752,03, inferiore di euro 407.157.247,97, rispetto allo stanziamento di euro 2.400.000.000,00». Evidenziava poi che «Al fine di raggiungere il target PNRR e di utilizzare tutto lo stanziamento previsto, è stato valutato di utilizzare le candidature pervenute per l’investimento relativo ai poli dell’infanzia 0-6 anni, che ricomprendono l’intera fascia dei servizi educativi, nei quali è ricompresa anche la fascia 0- 2 anni». Il tentativo era di farsi autorizzare a spendere il budget aggiuntivo anche per gli asili, quindi anche per i bambini un po’ più grandi. Queste candidature in un primo tempo erano escluse, perché il bando era riservato solo ed esclusivamente ai nidi, che coprono soltanto la fascia 0-2 anni. La proposta del ministero è passata, e si è deciso così di allargare la possibilità a chi si occupa di nidi e scuole d’infanzia assieme. Il numero di candidature è aumentato arrivando a 387, così da raggiungere il target economico, ma nonostante il tetris delle risorse non si è riusciti a mettere in piedi un piano nazionale che possa coprire le aree più svantaggiate. Infatti, come preannunciato, continuano a mancare i nidi, soprattutto al Sud, come in Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Abruzzo, ma anche al nord, come in Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte,Trentino Alto-Adige e Veneto.

Di 143 progetti, 104 sono stati esclusi

Non basta però trovare progetti che formalmente rispondano alle nuove disponibilità di budget. Pochi giorni prima della riapertura del bando a marzo 2022 infatti,  erano stati autorizzati 143 progetti su scala nazionale. Ma già erano sorti dei problemi, come la non conformità delle destinazioni d’uso e urbanistiche degli immobili che dovevano essere adibiti ad asili nido. Quelli non adeguati, che hanno dovuto fornire ulteriori chiarimenti, erano in tutto 104, su 143 progetti presentati, circa il 72%.  Quando finalmente si è riusciti a partire, scrive la Corte dei Conti nel suo report, «La Corte ha invitato il Ministero a completare celermente la relativa istruttoria e a sottoscrivere gli accordi di concessione con gli enti locali beneficiari, in un complessivo percorso di accelerazione a tutela dell’investimento, sia per i suoi risvolti sui migliori risultati scolastici dei bambini destinatari di istruzione prescolastica, sia per l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, con riduzione degli attuali divari territoriali e di genere». Oggi forse ci siamo, ma il gap da colmare è notevole. Manca soprattutto il personale: si arriva a questa situazione da anni di turn over bloccati, che hanno fatto proliferare strutture private o cooperative che forniscono personale al pubblico, soprattutto per i nidi, visto che gli asili furono già anni fa quasi tutti statalizzati. L’ultimo concorso per maestre di scuola d’infanzia risale al 2020, mentre proliferano le strutture private, che però non sono il business così florido che si possa pensare, anche perché al contrario delle Rsa (le case di riposo per anziani) di fatto non percepiscono fondi pubblici, se non in minima parte. 

Cosa serve per aprire un nido

Negli ultimi anni per far fronte ai problemi delle famiglie con figli si sono messe in campo diverse nuove formule di strutture per l’infanzia, che però non sembrano decollare. Anche perché in Italia non è così semplice aprire un nido o un asilo. Le regole sono stringenti, e i genitori stessi sono abituati a standard qualitativi alti. Difficilmente prenderanno piede, quindi, i nidi casalinghi o le soluzioni ibride che si sono affermate da altre parti. Ad esempio per aprire un semplice nido privato (come prescrive la legge 2929 del 2010) è necessario avere 6 metri quadrati per ogni bambino, che significa che per 24 bambini ci vogliono 180 metri quadrati. Ma non è solo quello. Ci vogliono bagni adatti con water a misura (lo storico vasino è antigienico e vietato) e chi fa le pulizie deve essere dipendente diretto della struttura. 

Nonostante le difficoltà, chi può tende comunque a preferire le strutture private. I prezzi infatti possono arrivare ad essere competitivi con il pubblico, e in più gli orari sono adattabili. E questa è la forza di nidi e asili privati, l’orario estendibile, che piace ai genitori che lavorano e che il pubblico non riesce a garantire. «Le strutture pubbliche – spiega  Francesca Marchetti de lo Stregatto, nido in provincia di Piacenza – non rispondono ai bisogni reali delle famiglie per gli orari, perché di solito alle 16.30 chiudono. Il privato inoltre in alcuni casi arriva a costare meno del pubblico». La media nazionale nel 2019, secondo l’ultimo rilievo di cittadinanza attiva era di 313 euro, perfettamente coincidente con il bonus regionale, ma in questa media rientrano anche le esenzioni. La realtà è che c’è chi arriva a spendere 600 euro al mese. Nel pubblico si è soggetti a Isee: chi ce l’ha superiore a 27 mila euro (basta avere due stipendi medi e una casa di proprietà) non ha diritto a sgravi. A Milano chi è residente paga 420 euro circa di nido, e non ha diritto al bonus nido in caso di isee alto, quindi la differenza con il privato, che costa attorno ai 600 euro di solito, è di circa 200 euro, ma con la garanzia di un orario più esteso e di una maggiore flessibilità del servizio. Con una carenza simile di posti, poi, il privato non è più un’alternativa al pubblico, oberato di liste d’attesa, ma una necessità. «In un comune di 3500 anime – dice Marchetti – il mio nido ha una lista d’attesa di quattro bambini. A Piacenza qualche anno fa si arrivava a 250. A Milano penso ci si muova nell’ordine delle migliaia. A volte ci arrivano telefonate da mamme che sono appena rimaste incinta e che prenotano il posto al nido». 

Molti comuni spesso danno la precedenza alle famiglie monoreddito, quindi due genitori che lavorano finiscono in automatico in fondo alla graduatoria. Anche per questo i comuni stanno puntando su un sistema misto pubblico privato, nella speranza di abbattere i costi con i servizi forniti dalle cooperative, le quali spesso per i margini risicati si ritirano, lasciando le amministrazioni comunali in braghe di tela. «Noi – continua Marchetti – siamo usciti dal circuito del pubblico e puntiamo su un’alta qualità. Vogliamo essere scelti dai genitori. Il problema è che anche nei privati i numeri non salgono, perché i margini sono bassissimi. Non ci sono contributi (se non 2mila euro l’anno per la formazione) e gli standard da mantenere sono alti, perché la scuola dell’infanzia è già riconosciuta come servizio educativo e il nido un giorno lo diventerà. Adesso ci sono soluzioni sperimentali alternative, ma spesso si rivelano fallimentari. Noi siamo tre socie e per noi è stata una scelta di vita, siamo disposte a guadagnare meno pur di fare quello che ci piace nel modo in cui vogliamo farlo, ma una dipendente di una cooperativa, pagata attorno ai mille euro con che spirito fa questo lavoro?». 

L’importanza della famiglia, ma solo negli slogan

L’altro aspetto dolente è quello delle retribuzioni dei dipendenti, che vanno da 1185 al mese a 1750 lorde. Si tratta di cifre piuttosto basse a fronte di responsabilità molto alte. Eppure qualche possibilità in più ci sarebbe, secondo la Cgil. «Mi chiedo – dice Tatiana Cazzaniga della Cgil funzione pubblica – perché non si faccia ricorso al fondo comunale di solidarietà, che fornisce le risorse economiche, anche importanti, per le assunzioni. Il comune di Napoli, dove la crisi si sente in modo particolare ha a disposizione 5 milioni di euro. Abbiamo un problema di mancata spesa: arrivano i fondi e i comuni non li spendono. Il nodo è che il cosiddetto partito dei sindaci vorrebbe usare questo denaro liberamente» cioè tenerlo fermo in attesa di spenderlo nel modo più vantaggioso anche politicamente. Se in piena pandemia arrivò lo sblocco dei fondi per gli assistenti sociali, non si riuscì a fare lo stesso con i fondi per gli educatori. «Il mio sospetto – continua – è che le amministrazioni locali temano che da qui ai prossimi mille anni, non verranno stanziate altre risorse e non hanno nessuna intenzione di investire». Il rischio quindi è quello di aprire un nido o un asilo che un domani non sarà più sostenibile, senza fondi esterni. Il che fa sorridere in un paese, in cui i concetti di famiglia naturale e famiglia numerosa sono sempre presenti nella retorica politica. «Perché – continua Cazzaniga – una famiglia dovrebbe andare a vivere in una città, che non ha servizi educativi? Ma la domanda è anche: perché un giovane dovrebbe iniziare a lavorare in un asilo con le retribuzioni così basse e una scarsa volontà di investire sul personale? Mancano anche le tutele: da anni chiediamo di istituire l’ordine professionale dei pedagogisti, ma ci sarebbero anche altre richieste da mettere in campo. A partire dall’allargare la base dei concorsi: ci sono 15mila educatori che avrebbero la possibilità, ma che non possono parteciparvi. Abbiamo bisogno di educatori anche nelle zone esterne, se vogliamo che le persone non vengano ad abitare soltanto nelle città».