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26 Febbraio 2021

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Perché è sbagliato introdurre il passaporto vaccinale in Europa

Invece di unire i Paesi riducendo le limitazioni agli spostamenti, il documento sanitario creerebbe nuove frontiere fra le persone schedate come sicure e quelle non sicure

di Alberto Alemanno e Luiza Bialasiewicz

In Europa sta prendendo piede l’idea di concedere dei vantaggi particolari a coloro che sono stati vaccinati. Tuttavia, l’idea di un passaporto vaccinale europeo sembra quantomeno prematura, se non addirittura avventata, in questa fase della pandemia.

Inizialmente proposto dal primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e accolto con favore dai leader politici di altri Paesi con una rilevante economia turistica, il passaporto vaccinale dovrebbe servire nei prossimi mesi a superare le limitazioni degli spostamenti all’interno dell’Unione. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, lo ha accolto favorevolmente qualificandolo un “requisito medico” necessario per mantenere aperte le frontiere.

L’adozione di questa misura rischia però di avere una serie di conseguenze non intenzionali perché si basa su premesse sbagliate, sia dal punto di vista legale e territoriale che dal punto di vista scientifico. Ma c’è di più: invece di unire l’Europa riducendo le limitazioni agli spostamenti, il passaporto vaccinale creerebbe semplicemente nuove frontiere fra le persone schedate come sicure e quelle non sicure.

Partiamo dalle premesse scientifiche alla base della proposta.

In primo luogo, il certificato si basa sul presupposto che coloro a cui sarà permesso di viaggiare non siano più portatori del virus. I dati attualmente in nostro possesso però suggeriscono che i vaccini per il Covid-19 bloccano la manifestazione dei sintomi ma, quanto alla trasmissione del virus, la rallentano soltanto. Quindi la premessa scientifica alla base del passaporto sembra quantomeno discutibile, stando alle informazioni che abbiamo oggi.

Ma non sono solo le premesse scientifiche erronee a rendere discutibile la proposta volta all’introduzione di un documento paneuropeo di vaccinazione. Il presupposto per condizionare alla vaccinazione la libertà di movimento all’interno dell’Unione dovrebbe essere un equo accesso al vaccino. Tuttavia, al momento, le forti differenze nell’andamento della campagna vaccinale nei singoli Stati membri rendono molto più alta la probabilità di essere vaccinati per i cittadini di alcuni Paesi rispetto ad altri: i danesi sarebbero molto più liberi di circolare dei francesi, i tedeschi lo sarebbero molti mesi prima degli olandesi. Ci sono poi differenze geografiche significative all’interno dei singoli Paesi, dove chi vive fuori dalle grandi aree urbane ha meno probabilità di accedere al vaccino, mentre la capacità delle singole regioni di organizzare la prima fase di somministrazione è molto variabile.

Oltre a queste differenze a seconda del paese o della regione di residenza, i singoli Stati membri sono liberi di compiere scelte diverse riguardo alle categorie di persone da sottoporre a vaccinazione in via prioritaria. A parte la priorità giustamente data alle categorie più a rischio, come il personale medico e gli anziani (priorità questa che crea un ulteriore criterio di discriminazione, quello generazionale), ogni Stato membro è libero di scegliere le prossime categorie di individui “essenziali” che riceveranno il vaccino: insegnanti, lavoratori dei trasporti, e così via. Insomma, le persone definite “essenziali” o “in prima linea” in ogni paese dell’Ue non corrispondono necessariamente agli stessi gruppi di persone.

E cosa ne sarà di quegli europei il cui stato formale, per un motivo o per l’altro, non corrisponde all’effettivo luogo di residenza o domicilio? Ci riferiamo ai milioni di cittadini residenti in Stati europei diversi da quelli di origine (circa 17 milioni), ma anche tutti i residenti non regolari che vivono nel continente. Tutti questi europei saranno probabilmente esclusi dall’accesso alla vaccinazione, quantomeno in queste prime fasi e, in assenza di un mercato secondario, potrebbero dare impulso alla nascita di un mercato nero dei vaccini. Se l’accesso pubblico al vaccino non è equo, la domanda privata è destinata a crescere molto, soprattutto fra i cittadini che vivono a cavallo degli Stati membri dell’Unione, o di cui la residenza non immediatamente e facilmente attestabile.

In considerazione dei molteplici livelli di disuguaglianza che oggi caratterizzano l’accesso ai vaccini, la Commissione dovrebbe promuovere maggiore collaborazione tra gli Stati membri per cancellare queste differenze e in tal modo prevenire la nascita di un mercato nero. Invece di pensare al certificato vaccinale paneuropeo, dovrebbe preoccuparsi di garantire scorte di vaccino adeguate e assicurarsi che vengano distribuite in modo equo e trasparente (impedendo così l’accumulo e il nazionalismo vaccinale da parte degli Stati membri) e allo stesso tempo trovare il modo di sostenere quegli Stati che sono in ritardo con le campagne. La recente proposta di definire un obiettivo comune di vaccinazione al 70% della popolazione è promettente, anche se poco realistica alla luce delle realtà di produzione, distribuzione e somministrazione dei vaccini.

I passaporti vaccinali non dovrebbero essere sventolati come una panacea per risolvere i problemi economici creati dalla pandemia, soprattutto in alcuni settori come il turismo o la ristorazione. L’apertura selettiva delle frontiere durante l’estate del 2020 per “salvare” le mete turistiche ha portato a un aumento vertiginoso dei contagi, creando nuove aree di disuguaglianza pandemica: le popolazioni delle località turistiche del Sud dell’Europa (i cui sistemi sanitari erano già sotto pressione) sono state esposte ai vacanzieri di tutto il continente. È significativo che persino il governo greco, uno dei primi promotori del certificato, abbia fatto marcia indietro sulla proposta: il ministro del Turismo Haris Theoharis la scorsa settimana ha dichiarato, infatti, che il certificato vaccinale “non sarà una precondizione per ottenere l’accesso alla Grecia”.

La pandemia da Covid-19 non si è sviluppata in maniera omogena sul continente, colpendo alcuni luoghi e le loro popolazioni molto più duramente di altri. L’Ue dovrebbe concentrare la propria attenzione sugli effetti perduranti di questi diversi impatti invece di contribuire ad aumentare le disuguaglianze con un meccanismo di selezione per sua natura escludente quale quello del passaporto vaccinale. Un certificato di questo tipo può sembrare una buona soluzione per gestire la pandemia ma, come tutte le forme di gestione del rischio biologico, si basa sulla schedatura di persone più o meno “a rischio”, definizione che in questo caso ha più a che fare con l’accesso privilegiato al vaccino che con il reale rischio di trasmissione della malattia.

Alberto Alemanno è titolare della cattedra “Jean Monnet” di Diritto dell’Unione Europea alla Grande École des Hautes Etudes Commerciales (HEC) di Parigi e fondatore di “The Good Lobby”. Luiza Bialasiewicz è titolare della cattedra di Governance Europea all’Università di Amsterdam e co-direttrice dell’Amsterdam Centre for European Studies