Martina B.
46 min fa
massimo c.
1 ora, 36 min fa
Vittorio B.
1 giorni fa
In Italia l’accordo illecito tra due soggetti – un mediatore e una persona interessata ad avere contatti con la pubblica amministrazione – che si realizza attraverso lo scambio (o la promessa di scambio) di denaro o di altra utilità per una reale o presunta influenza è punito sulla carta come traffico di influenze illecite (art. 346-bis, c.p.).
Quello che però accade nella realtà è che tale reato, per come è formulato e per l’assenza di una regolamentazione del lobbying nel nostro ordinamento, da un lato non aiuta – come dovrebbe – a punire tutta una serie di comportamenti che precedono le dinamiche corruttive, dall’altro, mette a rischio penale anche chi in democrazia pratica il lobbying in modo del tutto lecito con l’obiettivo di influenzare le decisioni pubbliche.
Lo facciamo ogni giorno anche noi, a nome della società civile, per convincere i decisori ad approvare una o l’altra legge in difesa dei diritti e del bene comune. Si chiama lobbying civico e niente dovrebbe avere a che fare con il traffico di influenze illecite.
Ma andiamo per gradi perché la materia è complessa.
Questa settimana, in Commissione Giustizia alla Camera, si sono tenute le ultime audizioni sulle proposte di legge presentate dalla maggioranza parlamentare per eliminare l’abuso d’ufficio dal Codice Penale. In una delle pdl è contenuto un articolo che chiede di intervenire anche sul reato di traffico di influenze illecite. Anche il ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato a mezzo stampa di lavorare a una profonda revisione del traffico di influenze illecite, con una proposta a suo nome che dovrebbe arrivare a breve.
La manovra appare infelice da vari punti vista: innanzitutto perché l’Ue sta approntando una Direttiva per rendere obbligatorio l’abuso di ufficio e se l’Italia decidesse di abrogarlo, sarebbe soggetta a sanzioni. Ma questa è un’altra storia.
D’altro canto il reato di traffico di influenze illecite non dovrebbe essere abolito bensì modificato nelle sue criticità e affiancato a una reale e concreta prospettiva di regolamentazione delle attività di lobbying. Solo così infatti potrebbe diventare un utile presidio per punire una serie eterogenea di comportamenti che precedono e affiancano le dinamiche corruttive, perché finalmente verrebbe fatta chiarezza su cosa è lecito e cosa invece è effettivamente illecito fare.
Vero è che nella realtà giudiziaria degli ultimi anni l’art. 346-bis ha fatto molta fatica ad affermarsi nell’ordinamento: non molte le contestazioni, pochissime le condanne, per una serie di insuperabili criticità che connotano la sua stessa formulazione, come ha sottolineato, di recente, anche la Cassazione Penale.
Si è parlato di reintrodurre la natura necessariamente patrimoniale del vantaggio dato o promesso al mediatore (ora, la norma prevede anche altre “utilità”). Ma che senso avrebbe escludere la possibilità – molto realistica – che il vantaggio indebito sia offerto sotto forma di altre mille “utilità” come favori, incarichi, altri benefici?
Si è parlato di precisare che il vantaggio offerto al pubblico ufficiale remunerato sia finalizzato all’esercizio illecito delle sue funzioni/dei suoi poteri. Ma a cosa serve precisare il carattere illecito, quando è già – di per sé – illecito destinare un qualsiasi vantaggio patrimoniale a un soggetto pubblico?
Insomma, la proposta di modifica non affronta minimamente il vero “cuore” del problema: leggendo il testo dell’attuale fattispecie, infatti, ogni attività di mediazione rischia di essere considerata sempre illecita e ogni prezzo della mediazione, indebita. Questo effetto collaterale – che viola i fondamentali principi di tassatività e determinatezza della norma penale – può essere contenuto, se non addirittura eliminato, soltanto con l’introduzione di una norma che identifichi, con precisione, la fisionomia della mediazione lecita, come quella dei portatori di interessi nell’attività di lobbying.
Nonostante i molteplici tentativi di regolamentare i rapporti tra i portatori di interessi e i decisori pubblici, culminati, nella 18esima legislatura, nell’approvazione di una pdl condivisa, l’Italia è ancora sprovvista di una normativa organica che disciplini l’attività di lobbying. Una regolamentazione in grado di rendere più trasparenti e aperti i processi decisionali contribuirebbe ad allargare la platea degli stakeholder in grado di offrire al decisore pubblico dati, informazioni, punti di vista che lo aiutino a valutare l’impatto potenziale delle sue scelte; permetterebbe di riequilibrare le asimmetrie informative oggi esistenti tra i diversi portatori di interessi; contribuirebbe a rendere più conoscibili i processi decisionali, aumentando la fiducia nei confronti delle istituzioni.
La regolamentazione del lobbying, insomma, potrebbe essere uno strumento per migliorare il funzionamento dei meccanismi decisionali nel nostro Paese e per rafforzare la qualità stessa delle nostre politiche pubbliche. Lo ribadiamo con forza da anni insieme alla rete Lobbying4Change, che conta 42 organizzazioni della società civile.
Abbiamo inviato proprio oggi al Ministero della Giustizia un position paper in cui si illustrano nel dettaglio le nostre posizioni. Ci aspettiamo una risposta e possibilmente una proposta di audizione nelle prossime settimane.
Il position paper è tratto dall’approfondimento a firma di Nicola Pietrantoni, avvocato penalista e membro del nostro direttivo, che affronta – in sintesi – le principali criticità. Lo puoi leggere qui nella versione integrale.
Di Nicola Pietrantoni
Come è noto, il delitto di traffico di influenze illecite – previsto all’art. 346-bis, c.p. – è stato introdotto dalla legge n. 190/2012 e poi modificato con la legge n. 3/2019.
La matrice della norma è sovranazionale e fa riferimento a due Convenzioni, sottoscritte e ratificate anche dall’Italia, finalizzate a rafforzare le misure di contrasto al fenomeno della corruzione: la Convenzione di Strasburgo del 1999 e la Convenzione di Merida del 2003.
Le due Convenzioni – si ritiene opportuno segnalarlo – non hanno imposto, agli ordinamenti nazionali, lo strumento penale per neutralizzare il c.d. trading in influence: in particolare, la Convenzione di Merida ha demandato agli Stati contraenti ogni valutazione circa l’eventuale necessità di introdurre, nei rispettivi ordinamenti, la fattispecie delittuosa in questione.
Alcuni Paesi firmatari della Convenzione di Merida, infatti, non hanno introdotto il reato di traffico di influenze illecite: è il caso, ad esempio di Svezia, Germania, Danimarca, Finlandia, Regno Unito e Paesi Bassi. In questi ordinamenti, infatti, le attività dei c.d. “portatori di interessi” sono già disciplinate e ogni eventuale condotta distorsiva viene sanzionata in sede penale.
Il nostro Paese, considerata la complessità e l’estensione del fenomeno corruttivo, ha preferito – invece – sanzionare penalmente sia il mediatore che vende una reale o presunta influenza presso un funzionario pubblico (nazionale o internazionale), sia la persona interessata ad acquistarla.
In questa prospettiva, l’art. 346-bis punisce proprio l’accordo (illecito) tra il venditore e l’acquirente delle influenze, che si realizza attraverso lo scambio (o la promessa di scambio) di denaro o di altra utilità, finalizzati:
Le condotte punite, dunque, si realizzano in un momento antecedente rispetto ad eventuali fatti di corruzione: in altre parole, la norma colloca il disvalore penale in una fase anticipata di tutela rispetto alla (successiva e sempre eventuale) dinamica corruttiva tra il mediatore (c.d. venditore di influenze) e il rappresentante della pubblica amministrazione.
Infatti, l’obiettivo della norma – certamente condivisibile – è quello di stigmatizzare ogni condotta prodromica ad un rapporto corruttivo, non essendo necessario che quest’ultimo si realizzi.
La formulazione dell’art. 346-bis offre – però – alcune criticità circa il rigoroso e necessario rispetto dei principi di determinatezza e di tassatività, con particolare riferimento alla punizione di quelle condotte di mediazione che non prevedono un indebito compenso per il pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio.
Infatti, se l’accordo avente per oggetto “denaro o altra utilità” da destinare al pubblico funzionario “…per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri…” può essere certamente considerato – in re ipsa – illecito, la norma – oggi – porta a considerare illecita ogni forma di mediazione e il compenso al mediatore, di conseguenza, indebito.
Questi effetti collaterali sono certamente amplificati dall’assenza di una precisa e rigorosa regolamentazione delle fisiologiche attività di lobbying, situazione che assegna all’art. 346-bis un evidente deficit di tassatività e di determinatezza: la norma, infatti, non chiarisce affatto quale sia l’influenza illecita che deve tipizzare la mediazione.
La stessa Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 40518/2021, da un lato, ha condiviso questi profili problematici e sottolineato gli inevitabili rischi in assenza di una legge che regoli l’attività di lobbying; dall’altro, i giudici di legittimità hanno cercato di fornire l’unica lettura dell’art. 346-bis compatibile con il principio di legalità. Per queste ragioni, hanno affermato che la mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un fatto reato idoneo a produrre vantaggi per il committente.
In questa prospettiva, sempre la Cassazione, con la successiva pronuncia n. 1182/2022, ha stabilito che – “…almeno finché perduri l’assenza di una regolamentazione legale dell’attività dei gruppi di pressione” – non possono considerarsi “mediazione onerosa illecita”:
La Suprema Corte, in definitiva, ha cercato di circoscrivere maggiormente il perimetro della rilevanza penale della norma e condiviso il precedente orientamento (Sent. n. 40518/2021) secondo cui la mediazione onerosa può considerarsi illecita quando è finalizzata alla commissione di un reato idoneo a produrre un vantaggio per il committente.
Oggi, dunque, il vuoto lasciato dalla norma (quando la mediazione è illecita?) è riempito – parzialmente – dal solo intervento della giurisprudenza di legittimità, mancando ogni altro parametro normativo che possa escludere la punizione di fisiologiche attività, come quelle di lobbying. Quest’ultime, infatti, non sono orientate – in cambio di denaro o di altre utilità – a influenzare impropriamente un processo decisionale in ambito pubblico, ma sono finalizzate a fornire informazioni (documenti, analisi, stime, valutazioni) che possano persuadere, in modo del tutto trasparente, un decisore pubblico.
Nonostante i molteplici tentativi di regolamentare i rapporti tra i portatori di interessi e i decisori pubblici, culminati, nella 18esima legislatura, nell’approvazione di una pdl condivisa, l’Italia è ancora sprovvista di una normativa organica che disciplini l’attività di lobbying. Si tratta di un’assenza che non solo danneggia la reputazione di un settore – quello delle relazioni istituzionali – in costante crescita sia dal punto di vista delle competenze e della professionalizzazione, sia da quello del valore economico generato, ma che ancor di più danneggia la qualità delle politiche pubbliche nel nostro Paese. Una regolamentazione in grado di rendere più trasparenti e aperti i processi decisionali contribuirebbe ad allargare la platea degli stakeholder in grado di offrire al decisore pubblico dati, informazioni, punti di vista che lo aiutino a valutare l’impatto potenziale delle sue scelte; permetterebbe di riequilibrare le asimmetrie informative oggi esistenti tra i diversi portatori di interessi; contribuirebbe a rendere più conoscibili i processi decisionali, aumentando la fiducia nei confronti delle istituzioni.
La regolamentazione del lobbying, insomma, potrebbe essere uno strumento per migliorare il funzionamento dei meccanismi decisionali nel nostro Paese e per rafforzare la qualità stessa delle nostre politiche pubbliche.
La recente proposta di modifica dell’art. 346-bis, c.p. (Pittalis, AC 645) si è posto l’obiettivo – condivisibile, alla luce delle criticità sopra sintetizzate – di circoscrivere l’ambito di applicazione della fattispecie, attraverso due interventi:
Sul punto, si rileva che il carattere necessariamente patrimoniale del vantaggio, se da un lato restringerebbe il perimetro applicativo della norma, dall’altro – però – potrebbe escludere la punibilità di una serie di altri vantaggi sintomatici di dinamiche patologiche (ad esempio, favori di natura sessuale o altri benefici difficilmente valutabili in termini economici).
In merito alla condotta che dovrebbe realizzare il pubblico funzionario a cui è destinato l’indebito compenso, l’intervento proposto (l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri deve essere illecito) non sembra del tutto centrato rispetto agli obiettivi sopra richiamati: è ovvio, infatti, che ogni remunerazione ad un pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio è sempre sintomatica di una dinamica patologica, anche laddove l’attività richiesta sia del tutto lecita.
Un intervento riformatore sull’art. 346-bis, c.p. – integralmente o parzialmente abrogativo della fattispecie – non può risolvere i gravi deficit di tassatività e di determinatezza che affliggono la norma: infatti, come si è visto, senza una precisa indicazione normativa circa le attività lecite di lobbying, il rischio concreto è che ogni attività di mediazione possa essere considerata, soprattutto dal Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari, illecita.
In particolare, in assenza di una disciplina ad hoc sui portatori di interessi:
L’attuale formulazione della norma favorisce, senza alcun dubbio, potenziali contestazioni, da parte dell’Autorità Inquirente, difficilmente accertabili – però – in sede dibattimentale, proprio per la mancanza di parametri normativi che identifichino mediazioni lecite e del tutto fisiologiche.
In molti ordinamenti stranieri, l’attività dei gruppi di pressione è disciplinata in modo preciso, proprio per evitare questi e altri effetti collaterali, tra cui il diffondersi di zone poco trasparenti, dove i faccendieri possono creare e sviluppare, più facilmente, rapporti poco trasparenti con membri della pubblica amministrazione.
In definitiva, focalizzarsi sul solo art. 346-bis e non (anche) sulla previsione di una disciplina delle attività dei gruppi di pressione significa ignorare il “problema” e le indicazioni della stessa Corte di Cassazione, che ha suggerito – di fatto – al Legislatore un intervento proprio su questa materia.
27 Novembre 2024
Blog
Blog