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14 Febbraio 2024

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1000 sprechi

I 1000 esperti assunti nel 2022 dovevano aiutare la pubblica amministrazione italiana a spendere i fondi del Pnrr, ma non abbiamo saputo sfruttare le loro competenze. Adesso le Regioni e l’Italia intera rischiano di rimetterci.

di Francesca Cicculli, Carlotta Indiano

Questa è l’ultima puntata dell’inchiesta “Le mani sulla Ripartenza” sul conflitti di interessi e le opacità del Pnrr in Italia, organizzata in collaborazione fra IrpiMedia e The Good Lobby e finanziata dai cittadini e le cittadine.


 

Carola entra nel bar boccheggiando. È l’estate più calda di sempre e a fine luglio l’aria di Roma sembra densa. Il clima non le ha impedito di raggiungerci in treno per raccontarci il suo anno da “esperta” alla Regione Emilia Romagna, conclusosi improvvisamente un mese prima della scadenza del contratto.
Con una pec la Regione le ha comunicato il suo «contributo non positivo al progetto», senza darle ulteriori motivazioni e senza avvisaglie. Come lei altre tre colleghe – Sandra, Licia e Giulia – con cui ha deciso di fare causa alla Regione e chiedere un risarcimento danni. Il ricorso nasce in particolare perché la Regione non ha saputo dimostrare il nesso di causalità tra il mancato rinnovo e il contributo non positivo menzionato.

La storia comincia a inizio dicembre 2021, quando Renato Brunetta, allora ministro della Pubblica Amministrazione, lancia il progetto “1000 esperti”, pensato per aiutare la pubblica amministrazione italiana nella messa a terra dei progetti a cui sono destinati i fondi dell’Europa. Finanziato dalla Missione 1 – Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo – del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), “1000 esperti” è stato il primo progetto finanziato con i soldi del Recovery, quello che doveva rendere possibili tutti gli altri. Il piano era quello di assumere e poi dislocare nelle diverse Regioni professionisti in grado di «accompagnare le amministrazioni territoriali nelle semplificazioni indicate dal Pnrr». Come infatti ha già raccontato IrpiMedia, gli enti locali non erano pronti a gestire i fondi del Pnrr, sia per mancanza di personale che di strutture. «A me, che mi occupo di fondi comunitari, quando si è iniziato a parlare dei soldi del Pnrr, è venuta la pelle d’oca, sapendo che alcuni comuni non hanno le competenze interne, la capacità e il personale per fare dei progetti che abbiano un impatto e seguano una strategia», conferma Carola a IrpiMedia. «Poi ho visto la chiamata agli esperti e ho pensato: “Dai, bene, almeno queste realtà qui avranno un supporto”», continua, condividendo un entusiasmo che raccoglieremo anche in altre interviste a esperti, ascoltati per questa inchiesta.
Ogni candidato poteva scegliere di presentare la propria domanda per una o più regioni, indipendentemente dalla propria residenza. L’Emilia Romagna in particolare aveva richiesto 62 esperti, divisi in otto settori: amministrativo, digitale, ambientale, energie rinnovabili, edilizia, gestionale, appalti pubblici, monitoraggio e controllo. Carola si candida come esperta ambientale, possedendo una specializzazione in ecologia e in politiche ambientali, oltre a una esperienza quindicinale in gestione tecnica e finanziaria dei progetti europei.
La fase dei colloqui termina verso il 20 dicembre. Carola è tra le prime in graduatoria e firma un contratto di collaborazione professionale il 30 dello stesso mese. Il 1 gennaio tutto il pool di professionisti è già insediato. Il contratto – della durata iniziale di un anno – prevede un compenso fino a 108 mila euro lordi.

 

Sotto esame: l’audit della Commissione europea sul progetto 1000 esperti

Tra maggio e giugno 2022, la Commissione europea ha svolto un audit che ha coinvolto Emilia Romagna, Abruzzo e Sicilia. L’obiettivo dei controlli era quello di verificare il raggiungimento del primo target del progetto, relativo proprio all’assunzione dei mille esperti.
Nel documento finale prodotto i funzionari europei hanno fatto emergere un problema relativo ai criteri di assunzione degli esperti: «I bandi non erano sufficientemente chiari per quanto riguarda la distinzione tra requisiti di ammissibilità, i criteri preferenziali e la descrizione delle competenze professionali richieste. In alcuni casi tali informazioni erano fuorvianti e quindi aperte a diverse interpretazioni». Piero, esperto assunto in Abruzzo nel 2021, spiega che il suo incarico era a «selezione diretta». Il bando specificava infatti che la selezione avrebbe tenuto conto del curriculum dei professionisti, ma «andando a leggere attentamente non c’erano punteggi, la selezione veniva fatta solo sulla base di alcuni criteri».
La prima selezione degli esperti idonei è stata fatta – in via sperimentale – da InPa, il nuovo portale di reclutamento della pubblica amministrazione, dove i candidati potevano creare un proprio curriculum digitale, inserendo i titoli di studio conseguiti e le esperienze lavorative calcolate in percentuale di ore lavorate (che per un lavoratore autonomo, come è la gran parte dei 1000 esperti, è difficile da calcolare). Non era richiesto di allegare nessun documento a sostegno delle informazioni dichiarate. Leonardo, professionista assunto in Sicilia, conferma: «I criteri di selezione nazionale dal portale InPa non erano esplicitati assolutamente, c’era solo scritto che il Ministero avrebbe mandato alle Regioni un elenco di nominativi che poi dovevano essere sottoposti a colloquio, ma non si sa su quali basi avveniva questa cernita». L’esperto abbruzzese aggiunge: «Il portale però inviava i curriculum arrivati per primi, non quelli migliori».
All’orale, le singole commissioni di valutazione degli esperti consideravano principalmente: i titoli di studi posseduti, gli anni di esperienza nell’ambito di selezione (solitamente dieci) e l’anzianità. Erano valutate anche le conoscenze e le motivazioni dei candidati.
Il dipartimento della Funzione pubblica ha replicato alle valutazioni della Commissione, sostenendo che la semplificazione e la standardizzazione del processo di selezione degli esperti è stata necessaria perché il tempo a disposizione per l’assunzione dei professionisti era molto breve.

 

Una parte per il tutto

Carola continua il suo racconto descrivendo gli stati d’animo che l’hanno accompagnata durante la fase di selezione: «Io ho partecipato pensando che non mi avrebbero mai presa. Per un contratto di quell’entità, in Italia, devi avere almeno sessant’anni e molta esperienza. Pensavo di essere fuori dai giochi e invece ero tra le prime in graduatoria».
La gestione del progetto sull’intero territorio nazionale ha poi seguito i “Piani Territoriali” redatti da ciascun ente locale. Questo documento, oltre agli aspetti organizzativi, stabilisce anche i target da raggiungere, sulla base delle necessità regionali. «Il Pnrr arriva in Italia, ma l’Italia non è in grado di usarlo per cui noi avremmo dovuto aiutare le amministrazioni», ribadisce nuovamente Carola, sottolineando l’importanza del loro ruolo di esperti. Questi dovevano infatti: ridurre le procedure arretrate, semplificando i tempi dei procedimenti, e fornire assistenza tecnica agli enti locali per la presentazione dei progetti, soprattutto quelli inerenti al Pnrr. Carola ci fa alcuni esempi: «In Francia, per autorizzare un impianto eolico e fotovoltaico ci vuole un anno. In Italia ne servono cinque. Noi potevamo aiutare a ridurre questa tempistica. Si potevano fare un sacco di cose belle», commenta amareggiata Carola, anticipando una delusione che ci racconterà da lì a breve.
Nei contratti degli esperti era inoltre prevista un’attività di supporto alla pubblica amministrazione nella messa a terra dei fondi del Pnrr: potevano intercettare i bandi e aiutare gli enti locali negli aspetti più tecnici, ma non scrivere i progetti. «Per questo però siamo stati subito bloccati. È arrivata una comunicazione dal Ministero che diceva che non dovevamo occuparci dei progetti del Pnrr». La prima delusione arriva quindi da subito, e non sarà l’ultima.
I problemi principali emergono quando Carola inizia a lavorare con i Comuni a lei assegnati.
«Abbiamo chiesto ai Comuni come eseguivano le procedure che dovevamo semplificare, in quanto tempo e quanti arretrati avevano. Abbiamo quindi identificato i punti critici per poi riuscire a proporre un piano di miglioramento con tutta una serie di azioni da fare per ridurre l’arretrato in generale. Questo però non è stato fatto seguendo un’idea, una visione d’insieme», ci spiega Carola nel dettaglio, «Quando a gennaio ho letto il Piano Territoriale, io mi sono fatta un’idea delle cose che si potevano realizzare, ma mi sono resa conto di essere l’unica del mio gruppo con un piano. Neanche il dirigente generale ce l’aveva. Quindi la stessa raccolta dei dati è stata fatta male, chiedendo le informazioni sbagliate».
Anche nelle riunioni plenarie tra Regione ed esperti non si pianificava nulla. Carola spiega che venivano convocate due giorni prima, duravano tutta la giornata ma non c’era un ordine del giorno da discutere.
Nonostante queste difficoltà di programmazione e di implementazione del progetto, a Carola è sempre stato riconosciuto il suo lavoro. Le attività svolte dagli esperti andavano infatti rendicontate attraverso un documento – timesheet – e in una relazione bimestrale che i dirigenti responsabili dovevano approvare e firmare. La procedura è ancora in vigore in tutta Italia. Queste relazioni vengono utilizzate per la verifica del raggiungimento dei target di progetto e per pagare gli esperti. Carola racconta che i suoi timesheet le sono stati tutti puntualmente controfirmati, a testimonianza del lavoro positivamente svolto.
Lavoro che però è stato portato avanti con numerose difficoltà, la prima fra tutte riguarda il rapporto con il suo coordinatore. «Io ero quella critica del gruppo. Criticavo soprattutto i metodi. Quando incontravamo i Comuni, il coordinatore diceva spesso delle cose inesatte a livello di gestione dei fondi – se ne accorgevano anche i dipendenti comunali e regionali – per cui mi sono trovata più volte a contraddirlo». Carola aggiunge che al coordinatore dava anche fastidio che i Comuni la cercassero direttamente per chiedere il suo supporto e per la formazione interna.
A questo punto della storia la voce di Carola comincia a tremare. Si versa un bicchiere d’acqua, beve lentamente e iniziai la parte del racconto più difficile: «Il commento dei miei colleghi, quando un tecnico mi veniva a cercare era: “Sappiamo perché ti cerca, ha preso una bella cotta per te”. Io replicavo, senza sorridere, che mi cercavano perché ero l’unica che rispondeva alle loro domande. E a quel punto mi dicevano: “Fattela una risata ogni tanto”». Carola ci racconta altri commenti chiaramente sessisti che ha dovuto subire finché non si è creata la crepa definitiva con il coordinatore.
«Ha iniziato a isolarmi. Quando arrivavano progetti e richieste a tema ambientale le girava all’esperto edile. Ho continuato a fare il mio lavoro ma ogni volta che svolgevo un compito, mi riprendeva, mi censurava, mi diceva che quello non era il mio lavoro, che non dovevo aiutare i Comuni, che dovevo stare zitta, che eravamo pagati per fare qualcos’altro e dovevo “essere meno, meno, meno”». L’apice viene raggiunto in una riunione in cui sia lei che un altro degli esperti più giovani del gruppo vengono redarguiti malamente per aver espresso alcune criticità nella gestione dei rapporti con i Comuni. «Ci hanno proprio detto che dovevamo essere più umili perché avevamo vent’anni in meno di loro».
Carola ha chiesto più volte spiegazioni sul suo isolamento, ma nessuno ha mai risposto alle sue e-mail, finché si è ammalata, probabilmente a causa dello stress da lavoro. Dopo ulteriori scontri le è stato suggerito di andare in malattia: una sospensione forzata e non pagata.
Durante questo periodo a lei e agli altri esperti è arrivato un questionario per valutare la loro performance, in base a: disponibilità, professionalità, collaborazione, leadership, numero di presenze.
Lo stesso questionario arriva anche a Sandra, l’altra esperta che ha fatto causa alla Regione Emilia-Romagna, che sentiamo qualche settimana dopo aver incontrato Carola. L’arrivo del questionario desta qualche preoccupazione, nel contesto del clima che si era creato sul lavoro: «Sapevamo che qualcuno dava fastidio e doveva rimanere a casa,» racconta «ma ci hanno detto che la valutazione serviva a far ruotare gli esperti all’interno dei vari gruppi. Quelli che lavoravano in Regione sarebbero andati per esempio sul territorio. Uno scambio di energie che avrebbe fatto bene».
Gli esperti sono stati valutati sia dai loro colleghi che dai Comuni con cui avevano collaborato, tranne gli esperti assegnati alla Regione che sono stati infatti valutati solo dai dipendenti regionali. I voti non avevano tutti lo stesso valore: quello dei coordinatori valeva doppio, come confermano a IrpiMedia le esperte ascoltate e come è specificato nelle memorie consegnate dalla Regione dopo la presentazione della causa contro di lei. «Valutatori diversi e metodi di valutazione diversi, mai dichiarati e mai spiegati», sottolinea Licia, la terza ricorrente che ha deciso di parlare con noi subito dopo le sue colleghe. «Il metodo di valutazione non è stato spiegato neanche in fase processuale, dove hanno presentato diversi metodi per ognuna di noi. Nelle memorie depositate contro di me il voto dei coordinatori valeva il doppio, nelle memorie depositate successivamente contro le mie colleghe valeva addirittura il triplo».
A inizio novembre arriva l’esito delle valutazioni. «Contributo non positivo al progetto» è la motivazione data a Carola, Sandra e Licia per motivare il mancato rinnovo del loro contratto. «Rimango basita per tante cose e soprattutto per le modalità, perché non avevano assolutamente detto che l’obiettivo era ridurre il numero degli esperti. Non si capiva neanche perché lo dovessero ridurre visto che comunque il budget del Pnrr era per tre anni. Io ho sempre sperato che questo progetto venisse un po’ rimodulato», dice Licia amareggiata, che non ha subito vessazioni come Carola, ma si è comunque scontrata con la sua coordinatrice per problemi di gestione del progetto.
Le esperte non rinnovate decidono di fare una richiesta di accesso agli atti per conoscere le motivazioni del loro licenziamento. A ognuna viene inviato il proprio punteggio: Carola era finita in fondo alla graduatoria: «Ero tra le ultime della classifica con competenze nulle, professionalità nulla, disponibilità nulla, presenza nulla», mentre la valutazione di Sandra e Licia era addirittura migliore di quella di alcuni esperti rinnovati. In risposta all’accesso agli atti, infatti, la Regione non allega i parametri con cui i coordinatori si erano valutati fra di loro. «Vengono forniti solo nelle memorie e io vedo subito che alcune medie erano state truccate», dice Licia. «Scopro che la mia coordinatrice ha un due, cioè un’insufficienza, al valore della leadership, ma la sua media finale era pari a quattro. Quindi mi calcolo la sua media (della valutazione della coordinatrice, nda) e vedo che il risultato era 3.91, addirittura meno di alcune colleghe non rinnovate che avevano preso 3,92».

La Regione comunque non era tenuta a rinnovare obbligatoriamente i contratti. Il rinnovo – fino a un massimo di tre anni – era subordinato al raggiungimento dei risultati stabiliti. Il licenziamento di Carola e delle altre esperte giunge dall’Emilia Romagna «inspiegabilmente e in modo contraddittorio rispetto a quanto certificato fino ad allora», scrive l’avvocato delle ricorrenti nelle sue memorie.
E infatti le sue assistite vengono comunque pagate fino a dicembre 2022, anche dopo la pec di licenziamento. «Loro hanno deliberatamente deciso di non rinnovare dieci contratti. Hanno deciso così», conclude Licia.
Ieri, 13 febbraio, il giudice incaricato ha però deciso di rigettare il ricorso di Carola, Sandra e Licia, riconoscendo alle Regione Emilia Romagna il principio di discrezionalità per il rinnovo dei loro contratti. Il giudice ha comunque confermato la presenza di irregolarità tra le tabelle di valutazione consegnate dalla Regione. Per questo motivo ha deciso che la Regione debba compensare le spese legali alle ricorrenti.
Questa sarebbe “solamente” una storia locale conseguente a denunce di discriminazioni sul lavoro e di mobbing, se IrpiMedia non avesse rintracciato esperti di altre regioni e scoperto che, almeno in Abruzzo e in Sicilia, emergono diverse anomalie circa i target, i risultati e le reali motivazioni che hanno portato all’allontanamento di esperti “scomodi”, per evitare di perdere i fondi anticipati dalle Regioni.
Alla fine il progetto, che doveva permettere all’Italia di spendere i soldi del Pnrr, potrebbe diventare una vera e propria spada di Damocle sui bilanci regionali.

 

Indesiderati

La motivazione dei mancati rinnovi in Emilia Romagna e in altre regioni italiane, potrebbe risiedere più nella struttura generale del progetto e nelle procedure di finanziamento, che nello scontro degli esperti con i coordinatori e dirigenti regionali.
Come molti altri progetti del Pnrr, infatti, gli enti erogatori dei fondi, in questo caso le Regioni, devono anticipare i soldi necessari alla realizzazione della misura. Il rimborso viene poi erogato al raggiungimento dei milestone, che sbloccano le rate del Recovery che l’Europa versa all’Italia. Se non raggiungiamo gli obiettivi prefissati, quindi, non otteniamo i rimborsi.
Il timore di non raggiungere i target e quindi di perdere i fondi ha spinto le Regioni ad allontanare tutti quegli esperti che volevano soprattutto svolgere con precisione il loro lavoro e quindi rischiavano di rallentare il conseguimento formale degli obiettivi.
Licia, per esempio, racconta che la propria responsabile non ha gradito le sue osservazioni negative sulla raccolta iniziale dei dati. Ogni Comune o ente, infatti, aveva un proprio metodo di lavoro, difficile da uniformare: «I Comuni più piccoli, per esempio, hanno ancora il protocollo cartaceo in cui vengono registrati inizio e fine di un procedimento. Non essendo tracciati informaticamente, i dati erano un po’ variabili a seconda di chi li inseriva» spiega l’esperta.
Gli esperti abruzzesi confermano: «Non c’era una base dati comune. Uno stesso ente con due sedi in due province diverse poteva addirittura dichiarare le cose in un modo differente da una sede all’altra», racconta Piero a IrpiMedia.
Sollevare questi e altri problemi nella gestione del lavoro potrebbe aver portato al non rinnovo del contratto di alcuni esperti. «Si sono accorti del fatto che le persone assunte erano in grado di leggere i regolamenti e le leggi e individuare le cose che non tornavano», aggiunge Piero, secondo cui gli esperti non rinnovati sarebbero proprio quelli che volevano lavorare con accuratezza, al contrario dei dirigenti che preferivano non modificare le procedure. La risposta più frequente alle proposte di Piero era infatti: «Abbiamo sempre fatto così, perché dobbiamo cambiare?».
Anche in Abruzzo si è deciso di seguire una procedura assai singolare per non rinnovare gli esperti più scomodi. Al posto di un questionario di valutazione, la Regione Abruzzo ha sfruttato una clausola del contratto: «Siccome non avevamo fatto tutte le ore previste entro l’anno (2022, nda), ci hanno chiesto la disponibilità a firmare un rinnovo fino al febbraio successivo, così da completare le ore rimanenti. Molti di noi hanno stupidamente accettato. La stessa Regione ci ha poi informato che il decreto prevedeva un solo rinnovo e quindi non potevano più farci un nuovo contratto».
Successivamente, in Abruzzo, hanno preferito sostituire gli esperti senior come Piero con altri più giovani e con meno esperienza, da utilizzare soprattutto per smaltire gli arretrati di Regioni o Comuni. Una pratica che in Sicilia è stata adottata sin dall’inizio del progetto, per coprire la carenza di risorse umane, tipica della pubblica amministrazione italiana. «Non c’è il personale. Noi dovremmo fare da supporto a chi si occupa delle procedure che dovremmo semplificare (da contratto, nda), ma siamo finiti a smaltire direttamente l’arretrato, perché gli uffici regionali e comunali sono oberati. Ma non eravamo stati assunti per questo», spiega Anna, una delle esperte siciliane intervistate. La situazione in Sicilia sembra ancora la stessa: continuano a usare dei professionisti esterni a partita iva, pagati molto di più di un dipendente regionale, pur svolgendo il loro stesso lavoro.

 

Camouflage

Per non perdere i fondi del Pnrr, le Regioni avrebbero anche modificato in corso d’opera i loro piani territoriali, così da raggiungere in tempo l’obiettivo previsto per dicembre 2023, ovvero la riduzione degli arretrati con la relativa semplificazione delle procedure.
Il Piano Territoriale stabilisce infatti i target da raggiungere sulla base delle necessità regionali. In Emilia Romagna, quando inizia il progetto, alcuni bisogni risultano ancora «da rilevare». Altri, come racconta Licia, sono stati erroneamente valutati: «Avremmo dovuto seguire i procedimenti ambientali che in realtà in Emilia Romagna sono in capo ad Arpae – l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente – e non alla Regione. Noi (gli esperti ambientali, nda), essendo stati affidati ai Comuni che non gestivano le procedure ambientali, non abbiamo potuto seguire questi aspetti per i quali eravamo stati assunti».
Tutte le Regioni, tra la fine del 2022 e metà 2023, hanno redatto un nuovo Piano, dopo una nuova ricognizione dei propri bisogni. L’Emilia Romagna ha accorpato alcuni profili degli esperti e aumentato il numero degli assunti, da 62 a 70. Anche il secondo piano abruzzese aumenta il numero di esperti da assumere, ma riduce le competenze e l’esperienza richiesta ai professionisti; in quello siciliano diminuiscono le percentuali di riduzione dei tempi delle procedure e dell’arretrato. Le ambizioni del progetto “1000 esperti” vengono quindi ridimensionate.
Nel caso della Sicilia, gli esperti rilevano dei problemi anche nel secondo piano: «Per come sono stati concepiti, i target non sono perseguibili», sostiene Rossella, una delle esperte siciliane intervistate. «Nell’individuazione dei colli di bottiglia delle procedure, per esempio, è stata calcolata solo la carenza di personale che, pur essendo la criticità più importante, non era l’unica. A influire è anche la carenza di informatizzazione, che impatta in diversi modi sia sulla durata dei procedimenti che sulla semplificazione e velocizzazione delle interazioni con gli enti terzi», si legge in una relazione di un team di esperti siciliani, per cui il
Piano territoriale è basato su presupposti fragili e incompleti che hanno poi «generato una discrepanza tra il quadro emerso dai monitoraggi e la possibilità effettiva di raggiungere i target proposti».
I timori di non raggiungere i target erano condivisi dalla stessa amministrazione regionale. Come raccontano diversi esperti in Sicilia, nei primi sei mesi di progetto, i dirigenti si sono rifiutati di firmare i timesheet delle attività svolte dei professionisti, perché la «vedevano come una responsabilità», spiega Rossella, che ha dovuto attendere luglio 2022 per ottenere il primo pagamento. La paura è che fosse addebitata a loro la “colpa” di non aver raggiunto gli obiettivi e quindi di aver bloccato di fatto le tranche di fondi previsti.
In Emilia Romagna gli stessi piani di miglioramento proposti agli enti locali, secondo Carola, sono stati redatti velocemente perché erano in ritardo sulle scadenze imposte dal progetto: «Hanno fatto tutti i piani di miglioramento in due giorni, quando solitamente ci vogliono mesi per farlo. Non condividevo né i contenuti né la metodologia e per questo ho chiesto che non ci fosse la mia firma», spiega. Carola ha ricevuto il piano di miglioramento dalla Regione quando già era stata licenziata.
Non solo, in Sicilia gli esperti intervistati sostengono che gli sia stato chiesto di aggiustare i dati in modo da far quadrare i conti e far sì che gli obiettivi risultassero raggiunti, «perché altrimenti ci sarebbe stata una riduzione dei fondi». I dati sarebbero stati confezionati quindi nella loro veste migliore, per esaltare i risultati conseguiti.
La stessa cosa sarebbe successa in Emilia Romagna. Secondo Carola, per dimostrare il raggiungimento degli obiettivi, per il monitoraggio semestrale dei risultati, sono stati selezionati solamente i dati dei Comuni più virtuosi, quelli che avevano ridotto l’arretrato e i tempi di lavoro.
IrpiMedia ha chiesto alle tre regioni citate di commentare le dichiarazioni dei propri esperti: Sicilia e Abruzzo non hanno risposto, mentre l’Emilia Romagna ha dichiarato di «non commentare i dibattimenti che si svolgono in tribunale» ma che «commenteranno eventualmente a sentenza emessa».
Al momento comunque non sappiamo se questi tentativi delle amministrazioni per far quadrare i conti abbiano funzionato. Ancora devono essere diffusi i dati relativi al raggiungimento degli obiettivi fissati alla fine dello scorso anno.

 

*I nomi degli esperti sono nomi di fantasia