Martina B.
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massimo c.
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Vittorio B.
1 giorni fa
L’influenza sulle decisioni pubbliche da parte di gruppi di persone accomunate da medesimi interessi, organizzata e realizzata secondo norme che assicurino la trasparenza nel rapporto con la pubblica amministrazione, è perfettamente coerente con lo sviluppo democratico di un paese moderno. Il concetto stesso di pluralismo, infatti, prevede anche la presenza e l’azione di realtà estranee alle dinamiche della rappresentanza politica in senso stretto.
In questa prospettiva, una regolamentata attività di lobbying potrebbe costituire un ulteriore e fondamentale strumento di partecipazione al processo decisionale pubblico e consentirebbe, alla stessa Autorità, di elaborare ed assumere determinazioni più coerenti con le esigenze della collettività.
L’attività di mediazione tra un privato e le pubbliche istituzioni trascina dietro a sé una serie di criticità che il Legislatore ha cercato di affrontare con la previsione del delitto di traffico di influenze illecite, norma finalizzata a punire attività anticipatorie o, comunque, sintomatiche di future corruzioni.
La fattispecie, recentemente modificata con la Legge Spazzacorrotti (2019), è stata introdotta dalla Legge Severino (2012) in risposta alle raccomandazioni, proprio in materia di “trading in influence”, contenute nelle convenzioni di Strasburgo (1999) e di Merida (2003) che avevano lo scopo di sensibilizzare gli ordinamenti dei singoli paesi sulla necessità di contrastare la compravendita delle intermediazioni in grado di alterare il processo decisionale in ambito pubblico.
In questa prospettiva, l’attuale art. 346-bis del codice penale punisce sia il mediatore che “sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite” con un funzionario pubblico riceve il compenso (indebito) per l’attività di mediazione (illecita), sia la persona che lo incarica.
La norma, formulata in termini molto ampi, rischia però di criminalizzare anche quelle attività totalmente estranee a dinamiche criminali, come le fisiologiche e lecite iniziative di lobbying che potrebbero invece rappresentare, qualora fossero regolamentate secondo criteri di trasparenza, uno strumento dissuasivo di eventuali comportamenti corruttivi nonché un contributo importante alle stesse determinazioni pubbliche.
Certamente problematica è la situazione in cui il contatto tra un soggetto (privato, pubblico, persona fisica, persona giuridica o gruppo di persone associate in varie forme) e la sfera pubblica avviene attraverso sistemi di comunicazione difficilmente identificabili e finalizzati, nei casi più patologici, a dirottare il processo decisionale verso il soddisfacimento di determinati interessi particolari.
Il nostro Ordinamento penale – proprio a tutela della correttezza, trasparenza e imparzialità dei processi decisionali – prevede e punisce una serie di delitti contro la pubblica amministrazione commessi da suoi appartenenti e da soggetti privati. In particolare, assumono rilievo non solo la fattispecie di corruzione nelle sue diverse forme e manifestazioni (per l’esercizio della funzione, per un atto contrario ai doveri d’ufficio, in atti giudiziari, nell’ipotesi di sua istigazione), ma anche altre figure di reato previste dal Legislatore per contrastare ogni forma di pressione illecita sul potere decisionale statale.
Tra queste, la fattispecie di traffico di influenze illecite, introdotta con la Legge 190/2012 (c.d. Legge Severino) e poi recentemente riformulata con la Legge 3/2019 (c.d. Legge Spazzacorrotti) che prevede – oggi – la responsabilità penale di chiunque, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (appartenenti anche ad organi internazionali) “…indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita”, ovvero per “… remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri…” (art. 346-bis, c.p.).
Il Legislatore del 2019, inoltre, ha inserito il delitto in questione nel catalogo dei reati presupposto per l’applicazione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (art. 25, D. Lgs. 231/2001), dimostrando di voler punire (con l’irrogazione di sanzioni pecuniarie e interdittive) anche le società nel caso di traffico di influenze illecite realizzato, nel loro interesse o vantaggio, da coloro che rivestono posizioni apicali o da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di questi.
La condotta descritta all’art. 346-bis c.p., come si può facilmente intuire, è prodromica rispetto alla commissione di altri fatti penalmente rilevanti e, per queste ragioni, la norma punisce il mediatore che non abbia concorso in eventuali e successivi fatti di corruzione.
Le pene previste – reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi – si applicano anche a “chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità” al mediatore e sono aggravate ove quest’ultimo rivesta un ruolo pubblico o qualora i fatti siano “…commessi in relazione all’esercizio dell’azione giudiziaria o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio…in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”.
Da una prima lettura della norma, emergono due condotte illecite tra loro alternative che prevedono entrambe la responsabilità penale del venditore (l’intermediario) e del compratore delle influenze illecite.
Nella prima, la prestazione indebita è finalizzata a remunerare la sola intermediazione che il venditore di influenze, facendo leva su relazioni (realmente esistenti o anche inesistenti) con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio (italiano o straniero), si propone di realizzare agli occhi del proprio interlocutore.
Nella seconda, invece, la corresponsione illecita è destinata, attraverso il ruolo e il contributo del mediatore, a corrompere il funzionario statale in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri o – nell’ipotesi aggravata – per il compimento di un atto contrario ai doveri del suo ufficio o per l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio.
L’analisi più attenta della fattispecie, però, evidenzia alcune problematiche relative, innanzitutto, alla dimensione della sua offensività, principio cardine del diritto penale secondo cui non vi può essere reato senza offesa ad un bene giuridico, cioè ad una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un comportamento dell’uomo.
In buona sostanza, il rigoroso rispetto del principio di offensività, dotato anche di rango costituzionale, dovrebbe imporre al Legislatore la sola criminalizzazione di quei fatti che ledono o pongono in pericolo l’integrità di un bene giuridico.
Il delitto di traffico di influenze illecite, che incrimina condotte che sono strumentali alla eventuale realizzazione di successivi accordi illeciti, sembra offrire una tutela troppo anticipata al bene giuridico protetto dalla norma, che viene riconosciuto e sintetizzato nel buon andamento e nella imparzialità della pubblica amministrazione.
Una eccessiva anticipazione della soglia punitiva rischia, poi, di confliggere anche con il fondamentale principio di determinatezza, secondo cui le norme penali devono descrivere fatti precisi e suscettibili di essere accertati e provati nel processo.
L’attuale formulazione dell’art. 346-bis c.p., dunque, potrebbe portare ad una inaccettabile dilatazione della discrezionalità del potere giudiziario, con il rischio di coinvolgere, nell’area della rilevanza penale, tipologie di condotte diversissime tra loro.
Nessun dubbio, infatti, sul disvalore penale di una intermediazione orientata ad ottenere dall’esponente della pubblica amministrazione non solo il compimento di un atto contrario ai doveri del suo ufficio, o l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, ma anche di un atto comunque dovuto in tempi più rapidi o con modalità diverse da quelle tipiche. In questi casi, l’attività di mediazione è certamente illecita e il corrispettivo destinato al mediatore (o al funzionario pubblico attraverso il mediatore) è indebito. Qualora il trafficante di influenze sia – lui stesso – un membro delle istituzioni, risulta ancora più evidente il disvalore penale correlato all’abuso del suo ruolo e delle sue funzioni per fini non istituzionali (per questo, il Legislatore ha considerato tale ipotesi un’aggravante).
In questi casi, non vi sono incertezze in ordine al coinvolgimento penale di colui (privato o pubblico) che vende l’influenza illecita e di chi l’acquista.
La condotta, invece, che suggerisce una riflessione critica, alla luce dei principi di offensività e determinatezza citati, è quella che punisce chiunque “…sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio…indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita”.
I termini indebitamente e illecita, infatti, sembrerebbero attribuire – sempre e comunque – una connotazione negativa a qualsiasi attività di mediazione, con il rischio concreto di trascinare, nella dimensione della rilevanza penale, una serie indeterminata ed eterogenea di condotte: quelle con finalità realmente distorsive degli equilibri decisionali, quelle prodromiche a fatti di corruzione, quelle che utilizzano il lobbying come copertura per esercitare pressioni illecite sul decisore, ma anche quelle di vero e proprio lobbying nella accezione virtuosa accennata in premessa.
Le possibili ragioni di una formulazione così ampia di questo delitto sono diverse e originano, in parte, anche da fonti di matrice sovranazionale. Non va dimenticato, infatti, che negli ultimi anni l’Ordinamento interno è spesso chiamato a conformarsi anche a sistemi internazionali di incriminazione con le relative difficoltà correlate all’adozione di figure di reato pensate e costruite fuori dai confini nazionali (in primis, in sede di Unione Europea, Consiglio d’Europa, CEDU, OCSE e ONU).
Le condotte illecite di “trading in influence”, infatti, sono state stigmatizzate dalla Convenzione di Strasburgo del 1999 (ratificata in Italia con Legge 112/2012) e poi dalla Convenzione Onu di Merida del 2003 (ratificata con Legge 116/2009).
In particolare, le Nazioni Unite hanno invitato gli Stati contraenti a valutare l’adozione di opportune misure legislative proprio per contrastare questi fenomeni: “Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences, when committed intentionally: (a) The promise, offering or giving to a public official or any other person, directly or indirectly, of an undue advantage in order that the public official or the person abuse his or her real or supposed influence with a view to obtaining from an administration or public authority of the State Party an undue advantage for the original instigator of the act or for any other person; (b) The solicitation or acceptance by a public official or any other person, directly or indirectly, of an undue advantage for himself or herself or for another person in order that the public official or the person abuse his or her real or supposed influence with a view to obtaining from an administration or public authority of the State Party an undue advantage” (art. 18, Convenzione di Merida).
Nel 2012, il nostro Legislatore ha così introdotto, all’interno del codice penale, la nuova fattispecie delittuosa di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) dando una risposta forte e precisa alle indicazioni convenzionali, le quali – è giusto sottolinearlo – non contenevano alcun obbligo di incriminazione del c.d. “trading in influence”, ma solo raccomandazioni a valutare l’eventuale adozione (“Shall consider adopting”) dello strumento penale.
Alcuni importanti paesi firmatari della Convenzione di Strasburgo (Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia), ad esempio, non hanno voluto criminalizzare il traffico di influenze illecite, sia per evitare eventuali collisioni con i principi costituzionali di tassatività, determinatezza e offensività, sia per garantire alla lecita attività di lobbying il proprio spazio di azione.
L’art. 346-bis c.p. introdotto dalla Legge Severino puniva la condotta di chiunque, fuori dei casi di concorso nei fatti di corruzione, “sfruttando relazioni esistenti” con un soggetto pubblico “…indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio” con l’ulteriore previsione che “la stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale”.
Nel periodo precedente al 2012, le implicazioni penalistiche correlate, in qualche modo, a queste forme di intermediazioni illecite, venivano prevalentemente ricondotte al paradigma della corruzione nelle sue diverse forme, considerata anche l’assenza di validi parametri normativi in grado di fissare il confine tra fisiologica pressione e intrusione illecita nella sfera pubblica con effetti distorsivi degli equilibri istituzionali.
In altri casi, veniva contestata la fattispecie di millantato credito (che puniva, ai sensi dell’art. 346 c.p. la condotta di chi “…millantando credito presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione…”) a prescindere dall’esistenza o meno del rapporto tra il mediatore e il soggetto pubblico. Alcuni giudici, infatti, ritenevano sufficiente che il mediatore, ove la relazione fosse reale, amplificasse il credito vantato con finalità ingannatorie. Anche per questi motivi, il soggetto che pagava il prezzo della mediazione (il c.d. compratore di fumo) non subiva conseguenze penali in quanto vittima del reato e potenzialmente legittimato a costituirsi parte civile nel processo contro il mediatore.
Leggendo la casistica giurisprudenziale di quegli anni, i mediatori imputati di corruzione avevano quasi tutti un ruolo pubblico (magistrato, parlamentare, consigliere regionale, responsabile dell’ufficio acquisti di una ASL), mentre la quasi totalità di quelli accusati di millantato credito erano soggetti privati.
In definitiva, i soli paradigmi punitivi della corruzione e del millantato credito, anche se interpretati in via estensiva, non potevano rappresentare un efficace presidio normativo per i fatti riconducibili al trading in influence così come descritto dalle fonti sovranazionali. Da qui, l’esigenza di una fattispecie autonoma di reato che cercasse di definire e neutralizzare, alla luce delle convenzioni citate, il traffico di influenze illecite.
Nonostante l’ingresso, nel 2012, di questo delitto nel nostro sistema penale, la successiva giurisprudenza aveva segnalato la frequente difficoltà applicativa dell’allora nuovo “346-bis” a situazioni e fatti che venivano spesso riqualificati, in sede giudiziaria, come reati diversi (corruzione propria, concussione, induzione indebita e millantato credito).
Per queste ragioni, nel 2019, la Legge Spazzacorrotti è intervenuta con una significativa riformulazione del reato in questione, finalizzata a contenere anche quelle specifiche condotte che precedentemente “sfuggivano” dallo schema punitivo del traffico di influenze illecite per confluire nel millantato credito. Per raggiungere l’obiettivo, il Legislatore ha dunque abrogato proprio il reato di millantato credito e il nuovo “346-bis” oggi valorizza, ai fini dell’integrazione del delitto di traffico di influenze illecite, anche la asserita e inesistente relazione tra il mediatore e il funzionario pubblico (“…sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite…”).
Nonostante la nuova veste dell’art. 346-bis c.p., rimangono però ancora irrisolti i profili critici della norma che riguardano soprattutto l’eccessiva anticipazione della tutela penale e l’indeterminatezza della condotta incriminata, con particolare riferimento alla mera attività di mediazione, nel cui ambito potrebbero rientrare anche azioni di lobbying organizzate e antitetiche ad intenzioni criminali. Proprio la mancanza, in Italia, di punti di riferimento normativi su cosa è il lobbying, e di conseguenza sul suo perimetro operativo, potrebbe creare spazi indefiniti ove è certamente maggiore il rischio di episodi corruttivi o comunque illeciti, favorendo l’innescarsi di quella che viene definita la “cattura dell’interesse pubblico” finalizzata a sviarne l’azione. Non vanno infatti dimenticate le numerose, e sempre più sofisticate, modalità con cui possono verificarsi interferenze illecite tra uno o più interessi particolari e il buon andamento della pubblica amministrazione, considerando le oggettive delicatezze e peculiarità che connotano, soprattutto nel nostro Paese, ogni interazione tra pubblico e privato.
Nicola Pietrantoni, avvocato penalista del Foro di Milano, ha maturato una significativa esperienza in tutti i principali settori del diritto penale d’impresa, nella disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, nella responsabilità penale in ambito sanitario e farmaceutico, nonché in materia di diffamazione nei media (stampa, internet, radio e televisione) e di tutela dei beni culturali.
È autore di numerosi articoli e pubblicazioni su argomenti giuridici di particolare attualità ed interviene spesso in qualità di docente in corsi universitari e master (“Diritto e Impresa” e “Criminologia e Reati Economici” organizzati da Il Sole 24ore), nonché di relatore in convegni e tavole rotonde nelle materie di maggiore specializzazione.
È iscritto all’International Bar Association (IBA) e all’Associazione Internazionale di Diritto Penale (AIDP).
Email: nicola.pietrantoni@studioisolabella.it
27 Novembre 2024
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