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19 Dicembre 2022

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L’Appennino tra mafie, spopolamento e soldi del Pnrr

90 milioni di euro: sono i soldi che arriveranno dal Pnrr sull’Appennino bolognese. Un'area spesso considerata un’isola felice, ma mentre i posti di lavoro continuano a diminuire, mafie e corruzione si fanno strada sempre di più.

di Cecilia Fasciani, Andrea Giagnorio, Sofia Nardacchione

Questa è la quinta puntata dell’inchiesta “Le mani sulla Ripartenza” sul conflitti di interessi e le opacità del Pnrr in Italia, organizzata in collaborazione fra IrpiMedia e The Good Lobby.
Il progetto è finanziato dai cittadini e dalle cittadine. Vuoi partecipare? Dona ora >>


Le alte vallate dell’Appennino bolognese sono costellate di fabbriche, piccole e grandi, non più in attività o con sempre meno lavoratori. Intorno, piccoli comuni caratterizzati da indici di fragilità sociale, demografica ed economica sempre più alti. Così nell’area montana che divide l’Emilia dalla Toscana lo spopolamento e la diminuzione dei posti di lavoro vanno di pari passo: gli ultimi casi riguardano tutti il settore delle macchine per caffè, che occupava più di 1.500 persone solo nella vallata di Gaggio Montano, comune che conta poco meno di cinquemila abitanti. Anche lo storico “distretto delle macchinette” è infatti colpito da chiusure e delocalizzazioni: «Se iniziano a chiudere queste fabbriche la montagna inizia a morire», afferma Elisa Pedrini, lavoratrice che in sette anni ha vissuto il rischio di due delocalizzazioni: quella della Saeco Vending nel 2015 e quella della Saga Coffee nel 2021.

In entrambi i casi, gli scioperi delle persone che ci lavoravano, per la maggioranza donne, sono andati avanti per settimane: «Qui il lavoro è vitale – spiega il sindacalista della Fiom Cgil di Bologna Primo Sacchetti – perché l’economia di tutto l’Appennino si basava su questi stabilimenti: chiudere uno stabilimento mette a rischio l’intera tenuta sociale del territorio»

La mafia dei pascoli nei luoghi dell’eccidio nazifascista

Mentre lo spopolamento aumenta, aumenta anche la disattenzione e, di pari passo, il rischio di infiltrazioni mafiose, ancora di più con l’arrivo di una quantità di soldi che non si è mai vista prima, come quelli che arriveranno dal Piano nazionale di ripresa e resilienza: 90 milioni solo sull’Appennino bolognese.

«Ormai l’ambiente montano è un territorio marginale che viene abbandonato in maniera inesorabile da vent’anni a questa parte», spiega Isidoro Furlan, Generale dei Carabinieri in riserva che nel corso della sua vita lavorativa si è specializzato in operazioni anti bracconaggio e contro truffe e sofisticazioni agroalimentari. «Gli appennini – continua – sono aree marginali e l’abbandono ha portato al loro depauperamento: neanche i legittimi proprietari sanno più i confini dei propri terreni, perché sono abbandonati da anni. Per cui i territori sono alla mercé di chi fa le truffe». E infatti di truffe ce ne sono state, su terre abbandonate ma non solo, anche in luoghi dove ogni anno camminano migliaia di persone: nei luoghi dell’eccidio di Marzabotto, dove solo nell’autunno del 1944 i nazifascisti hanno trucidato 775 persone tra civili e partigiani, è arrivata quella che è stata definita “mafia dei pascoli”.

La compagine criminale finita al centro del maxiprocesso Nebrodi, che prende il nome dal parco naturale che si estende tra le province di Messina, Catania ed Enna e che è giunto a sentenza nella notte del 31 ottobre scorso con 91 condanne per più di 600 anni di carcere, è riuscita a guadagnare anche sui terreni del Parco storico di Monte Sole, grazie ai fondi europei per l’agricoltura. Un meccanismo che collega la Sicilia all’Emilia-Romagna e non solo: le truffe della mafia dei pascoli hanno coinvolto terre di tutta Italia. Truffe che si basano sulla falsificazione di carte che attestino il possesso o l’affitto di terreni invece abbandonati o non utilizzati a fini agricoli dai reali proprietari, per portare i fondi europei che avrebbero dovuto aiutare allevatori e agricoltori nelle mani dei clan dei Batanesi (per cui è stata riconosciuta la mafiosità) e dei Bontempo Scavo.

Truffe da milioni di euro – 10 milioni in sette anni su tutto il territorio nazionale, duecentomila solo sull’Appennino bolognese – portate a termine anche grazie a professionisti compiacenti: tra questi c’è Giuseppe Scinardo Tenghi, che per anni è stato operatore del Centro autorizzato di assistenza agricola tra Enna e Trapani e, prima, impiegato dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea). Tenghi, condannato in primo grado a quattro anni per le truffe sui terreni, grazie alla conoscenza acquisita sul sistema di controllo dei fascicoli aziendali dei produttori agricoli e sulle vulnerabilità del sistema gestionale per i pagamenti dei contributi comunitari erogati da Agea, era il soggetto ideale per riuscire a inserirsi nel business milionario: secondo i giudici, nel 2014, 2015 e 2016 (unico anno in cui il contributo non venne erogato) attraverso la sua impresa Geo-Zoot ha indotto in errore l’Agea, falsificando la carte per dimostrare che la sua impresa avesse in uso ettari di terreno del Parco storico di Monte Sole e facendosi quindi erogare contributi dal Fondo Europeo Agricolo di Garanzia.

«L’operazione Nebrodi ha tirato fuori delle forti interconnessioni con altri pezzi di territorio: sono coinvolti l’Abruzzo, l’Emilia-Romagna con Marzabotto e tanti altri luoghi. Non è quindi solo un fenomeno siciliano, ma un fenomeno più ampio che riguarda il nostro Paese e non solo. In questi lunghi anni intorno al fenomeno ha vinto il silenzio. E, dentro a questo silenzio, ci sono altri due protagonisti: la paura e le connivenze. Questa vicenda dimostra il mutamento delle mafie: sono sempre state liquide, si sono adattate ai contenitori». A raccontarlo è Giuseppe Antoci: ex presidente del Parco dei Nebrodi, tra i primi a portare alla luce il meccanismo di pressioni ed intimidazioni che subivano gli agricoltori e il giro milionario di soldi legato alle truffe sui fondi europei, è stato minacciato più volte ed è sopravvissuto a un attentato.

Il silenzio di cui parla Antoci attraversa anche l’Appennino bolognese e lo fa in un luogo simbolico per la comunità di tutta la regione: quello dove ogni anno migliaia di persone festeggiano il 25 aprile, camminando sui luoghi delle stragi avvenute quasi ottant’anni fa, dalla Scuola di Pace fino al cippo con la Stella Rossa della Brigata partigiana, in cima a Monte Sole, passando per il Cimitero di Casaglia.

Qua il silenzio è quello dei proprietari dei terreni finiti al centro della truffa: non è detto che ne fossero a conoscenza, ma contattati non hanno comunque voluto parlare. Uno dei casi riguarda una cittadina privata, proprietaria di terreni in parte dati in affitto e coltivati, in parte completamente abbandonati, come ha dichiarato la sua segretaria: «È stata convocata per testimoniare perché sembrava che ci fosse una truffa dietro ma lei non ne sa niente ed è completamente all’oscuro». Ma altri casi coinvolgono anche istituzioni pubbliche, come l’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità – Emilia Orientale, istituito dalla Regione Emilia-Romagna per la gestione di aree protette, a cui appartengono i terreni nel cuore del Parco storico.

Sandro Ceccoli, presidente dell’ente regionale, ha affermato più volte – raggiunto telefonicamente, per mail e di persona nella sede lavorativa – di non essere in alcun modo a conoscenza della vicenda e di non essersi informato in merito, neanche dopo le segnalazioni inviate: «Non abbiamo niente da dire e qui non abbiamo neanche le persone che possano dare queste indicazioni», ha dichiarato.

Reticoli mafiosi

Così, mentre silenzio e disattenzione sembrano imperversare, nelle vallate dell’Appennino a sud di Bologna ci sono già stati anche altri casi di infiltrazioni mafiose. Ce n’è uno in particolare di cui in pochi parlano ma che racconta bene il rischio dell’arrivo delle mafie dove ci sono soldi e dove c’è silenzio: è il caso emerso con l’inchiesta Reticolo, che colpisce uno dei comuni più grandi del territorio, Porretta Terme. E in particolare un luogo: una casa di riposo a pochi passi dalle storiche terme, costruita lungo uno degli affluenti del fiume che attraversa la città prima di scendere a valle.

«Un affare ideale», lo chiamano gli inquirenti nell’ordinanza dell’operazione che nell’ottobre del 2021 ha portato a numerose misure cautelari con l’accusa di associazione mafiosa: la casa di riposo Sassocardo secondo l’accusa è stata depredata da due persone – Fiore Moliterni e Francesco Zuccalà – ritenute vicine al clan di ‘ndrangheta Barilari-Foschini. Da Crotone e da Milano, nel 2015 i due arrivano sull’Appennino per subentrare nella proprietà della srl Albergo Residenziale Sassocardo facendosi carico dei quattro milioni di euro di debiti della precedente proprietaria, Stefania Semprini. Il motivo, rilevare l’immobile di pregio.

«La proprietà si è messa in mano a qualcuno, disponibile a rilevare la proprietà con il fine ultimo di dismettere l’attività e probabilmente impadronirsi di quello che era l’elemento di maggior pregio, cioè dell’immobile».

A spiegarlo è il sindacalista della Funzione Pubblica della Cgil di Bologna Simone Raffaelli, che ha seguito il caso per il lato che riguarda le lavoratrici della casa di riposo. Prima di dare voce a loro, però, bisogna capire il meccanismo che c’era dietro al progetto criminale: dopo diversi passaggi societari e la creazione di nuove entità, accompagnate, secondo quanto emerge dall’inchiesta, da fatturazioni fittizie e riciclaggio, Moliterni e Zuccalà avrebbero spogliato la casa di riposo con lo scopo di portarla al definitivo fallimento. In mezzo finiscono proprio le lavoratrici, costrette a dimissioni volontarie dalle società che man mano fallivano e venivano sostituite da nuove create ad hoc. Vittime, se non accettavano nuovi contratti che nulla avevano a che fare con le loro mansioni, di minacce di licenziamento e di mancati pagamenti: «Loro cercavano un’azienda in difficoltà e il Sassocardo era veramente in grossa difficoltà e la dottoressa Stefania Semprini non ha saputo vedere il pericolo», spiega Francesca Accorsi, l’unica delle lavoratrici che ha voluto parlare di quello che è successo e che, comunque, non vuole fare nomi.

Un meccanismo, anche in questo caso, di silenzio, che si lega strettamente al luogo dove si è inserito il progetto criminale: una piccola comunità dove le voci circolano in fretta. «Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è molto più stretto, molto più vicino, si incontrano, si conoscono tutti», spiega l’avvocata giuslavorista Antonella Gavaudan. «Se il lavoratore fa valere un suo diritto tutta la comunità ne viene a conoscenza: persone che potrebbero denunciare o segnalare si tirano indietro e temono di farlo proprio perché in una piccola realtà i riflessi potrebbero essere importanti».

Ma c’è anche un altro tema che torna: quello del lavoro e dello stato di bisogno su cui fanno leva, tradizionalmente, le organizzazioni criminali: «Il primo gruppo di lavoratrici sicuramente avevano bisogno di quel lavoro e hanno fatto fatica a trovarne un altro in un contesto come quello di Porretta Terme, dove non è facile trovare un’occupazione. E hanno quindi accettato di soggiacere a delle condizioni che non erano buone», dice sempre Raffaelli. Per le lavoratrici, secondo quanto emerge dall’ordinanza dell’operazione, c’erano due opzioni: perdere il lavoro e anche gli arretrati che non erano stati pagati o accettare le condizioni imposte. «Noi non abbiamo considerato il ricatto o l’intimidazione vera e propria – ricostruisce Francesca Accorsi – perché ci si prospettava l’idea di continuare un rapporto di lavoro».

Intimidazione, ricatto, riciclaggio, fatturazioni false: elementi che emergono dall’inchiesta e che si collegano alle aggravanti contestate, a partire da quella del metodo mafioso. Nelle carte, tra l’altro, emergono due nomi noti in Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana. C’è Pasquale Battaglia, condannato in via definitiva a otto anni per associazione mafiosa ed estorsioni: prima dell’arresto, è stato amministratore unico della B.P. una delle società che avrebbe emesso fatture false per lavori mai eseguiti all’interno della Sassocardo. E c’è Luigi Muto condannato in via definitiva a 12 anni per associazione mafiosa: è lui che interviene direttamente per risolvere un problema che riguarda il figlio di Francesco Zuccalà. Zuccalà, così come l’altro principale indagato, Fiore Moliterni, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

La scuola fantasma

«Secondo me quello che è successo alla Sassocardo è una cosa un po’ circoscritta però è una mia impressione». A dirlo è Franco Rubini, sindaco di Grizzana Morandi, città di neanche quattromila abitanti che prende il nome dal pittore bolognese Giorgio Morandi. Anche qua di problemi ce ne sono già stati: in questo caso partono dall’appalto per la costruzione di una nuova scuola che avrebbe dovuto accogliere studenti e studentesse anche dai paesi vicini. I lavori sono cominciati all’inizio degli anni Duemila ma oggi la scuola è ancora uno scheletro. C’è la struttura a nudo, qualche materiale da costruzione dentro e le grate da cantiere a ridosso con i nomi delle società che ci hanno lavorato: ce n’è uno in particolare che cattura l’attenzione, quello della Pi.Ca Costruzioni. A segnalarlo è lo stesso sindaco che afferma che la società che ha lavorato inizialmente nei lavori «ha avuto un’infiltrazione mafiosa» e, specifica, «era accusata di mafia, poi è fallita ed è sparita».

La storia è però più complessa, tra responsabilità poco chiare e qualche colpo di scena. Nel 2004 il Comune fa partire i lavori: l’appalto vale un milione e quattrocentomila euro per creare il polo scolastico di Riola Ponte. I fondi però non erano sufficienti: i lavori, quindi, si fermano e la scuola – al di là della palestra, inaugurata solo quest’anno – non viene mai completata. Neanche la Pi.Ca Costruzioni c’è più: è fallita qualche anno dopo i lavori alla scuola. Uno dei soci della ditta, Francesco Piccolo, non si occupa più di edilizia dopo un’interdittiva antimafia che ha colpito nel 2015 la Pi.Ca Holding, un’altra società di cui era amministratore.

«Prima di creare questo romanzo, vedete prima chi sono, cosa ho fatto, se ho avuto qualche interesse a farlo, perché se tu mi dici che ho avuto interesse a denunciare un clan che mi ha cercato di ammazzare…».

Piccolo parla di una situazione precisa: insieme al socio Raffaele Cantile, compaesano di Casapesenna, vicino Caserta, nel 2012 sale all’onore delle cronache perché denuncia di essere vittime di estorsioni da parte del clan dei casalesi per tramite di un ex socio in affari. Ma la storia non regge: nel 2015 la Prefettura di Modena emette un’interdittiva antimafia verso la Pi.ca Holding per gli stretti rapporti con Giuseppe Fontana, un imprenditore legato al clan camorristico degli Zagaria e condannato a dieci anni proprio per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo l’imprenditore si tratta di un malinteso: «Ci sono degli eventi che vengono percepiti diversamente al Sud e al Nord, perché al Nord non si capisce bene qual è il sistema». Ma la situazione pare chiara. Per il Consiglio di Stato, nell’atto che conferma l’interdittiva, da un’intercettazione ambientale emerge la strategia di Giuseppe Fontana: partecipare a bandi pubblici, in accordo con il boss Zagaria, attraverso una società al di sopra di ogni sospetto, la Pi.Ca di Francesco Piccolo. Proprio l’imprenditore che agli occhi dell’opinione pubblica passava come vittima della criminalità organizzata.

Dietro a un bando da poco più di un milione di euro si nasconde una storia di criminalità e infiltrazioni, ma nessuno se n’è mai interessato. E secondo il sindaco Rubini per risolvere il rischio di infiltrazioni mafiose basta affidarsi a imprese locali, ma anche solo per il bando per la riqualificazione dell’edificio del municipio, da un milione e 200 mila euro, dice di avere avuto delle difficoltà: «Noi abbiamo delle aziende locali a cui ci affidiamo. Quando facciamo delle gare per cinque ditte siamo tranquilli. Abbiamo fatto una gara per 20 ditte sulla riqualificazione del Municipio e non le avevamo tutte in zona».

Un tema non da poco perché il comune di Grizzana Morandi è stato selezionato per il progetto del Piano nazionale di ripresa e resilienza più grande: il Progetto Borghi, che ha l’obiettivo di «creare una crescita sostenibile e di qualità e di distribuirla su tutto il territorio nazionale». La linea A del progetto prevede la realizzazione di ventuno progetti pilota, uno a regione, che riceveranno 20 milioni a testa. In Emilia-Romagna il progetto selezionato è quello contro lo spopolamento di Campolo e La Scola, frazioni di Grizzana Morandi. Un piccolo borgo medievale e un altro fatto di case di pietra che, insieme, contano poco più di cinquanta residenti.

Milioni di euro dal Pnrr

Sull’Appennino bolognese, la leggenda delle piccole comunità che controllano il territorio e sanno chi arriva e cosa succede nei paesini di montagna sembra svanire. Quando si cammina per le strade dei paesi appenninici praticamente nessuno conosce i casi di infiltrazioni mafiose che ci sono stati, così come in pochi conoscono i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per tutti il problema principale rimane quello legata alla viabilità, sicuramente non le infiltrazioni criminali.

È in questo contesto che arriveranno 90 milioni di euro dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, in piccoli comuni con pochi dipendenti e una struttura che non è abituata a gestire così tanti soldi: «Il rischio che finiscano nelle mani sbagliate o che i comuni non abbiano la capacità tecnica è reale – afferma Igor Taruffi, Assessore al Welfare della Regione Emilia-Romagna con delega alle aree interne e storico amministratore dell’Appennino – perché i piccoli comuni di montagna hanno personale ridotto, uffici tecnici ridotti, uffici di ragioneria con poco personale». E c’è anche un altro tema, che riguarda gli strumenti di monitoraggio: «La pioggia di denaro che arriverà in Italia, 235 miliardi di euro, sono un’attrattiva fortissima per la criminalità organizzata. Non aver previsto la logica del monitoraggio dei fondi del Pnrr ci espone ad oggi a rischi giganteschi». Leonardo Ferrante, responsabile del settore anticorruzione civica di Libera e del Gruppo Abele, non è l’unico a mettere in guardia. Lo fa anche Giuseppe Antoci che da anni cerca di mettere in campo strumenti per far sì che i fondi europei – nello specifico quelli legati all’agricoltura – non finiscano in mani mafiose: «Il Pnrr – dice – può diventare il precipizio dove crollano tutti e dal quale non riusciremo più a risalire».

Mancata trasparenza, scarsa consapevolezza del rischio di infiltrazioni mafiose, strutture non abituate a gestire così tanti soldi sono elementi che riguardano l’Appennino bolognese ma non solo: milioni di euro arriveranno su altri Appennini, in altre aree interne del Paese, in piccoli comuni che non hanno il personale né le competenze per gestirli. Milioni e miliardi di euro che sono da spendere, in tutti i casi, in pochissimo tempo: entro il marzo del 2026.